Quante botte tra i democratici, il Pd è un partito diviso in due
La corsa alle Europee si apre con il premier da una parte e la minoranza dall'altra. Renzi attacca: "Basta ostacoli". E D'Alema guida la fronda per riprendersi la ditta
La sinistra che non cambia diventa destra, tuona da Torino Matteo Renzi, premier e segretario del Pd. Le norme della destra non diventano giuste se a proporle siamo noi, ribatte da Roma Gianni Cuperlo, leader della minoranza interna. Ecco il Pd che ha aperto ieri la campagna elettorale per europee e amministrative: un partito diviso anche nei comizi, in disaccordo sulle cose da fare, litigioso, che si lancia accuse incrociate di chi sta più a destra.
In un Palaolimpico con parecchi vuoti Renzi si tuffa in campagna elettorale mentre Massimo D'Alema dal teatro Ghione gli rinfaccia: «Noi dobbiamo essere il Pd, una minoranza deve aspirare a diventare una maggioranza» perché «non possiamo accettare che il Pd si spenga». Renzi proietta filmati propagandistici con l'elenco delle (poche) cose fatte e l'indice del libro dei sogni; Cuperlo spegne subito ogni velleità: «Quando arriveremo alla verità non sarò disponibile a sacrificare la bibbia della Costituzione sull'altare di un accordo politico». Quello con Silvio Berlusconi.
Il partito è lacerato e smarrito, forse sull'orlo della scissione. Renzi lo sa, e dedica gran parte del comizio torinese proprio alla minoranza interna, che cerca addirittura di trasformare in risorsa quando invita i candidati sindaci del Pd a circondarsi «di gente che sa dirvi di no». Ma nella sostanza il premier non recede di un passo. Propone come esempi i parlamentari che si candidano a sindaci di importanti città (Firenze, Bari, Prato) lasciando il «comodo scranno» romano. Difende la riforma sul lavoro del ministro Poletti dopo le devastazioni compiute dai governi Monti e Letta (ad alto tasso di presenza Pd): «Nel 2011 noi e la Gran Bretagna avevamo una disoccupazione all'8 per cento, ora gli inglesi sono al 7,1 e noi al 13 dopo anni di sacrifici durissimi. Le regole che raddoppiano la disoccupazione non funzionano, è inutile essere il partito del lavoro se non sappiamo creare occupazione».
Il premier non indietreggia nemmeno sulle riforme costituzionali: «La fine del bicameralismo perfetto è sempre stata una bandiera della sinistra italiana». Insiste sui tagli agli stipendi dei manager pubblici («Non sono una punizione ma un riavvicinamento alla gente») e ripete che il Pd non deve «stare soltanto nei palazzi del potere per difendere i finanziamenti a pioggia: i soldi dell'Europa devono andare all'Italia non all'Italietta». E poi: «Caro Pd, non lasciamo agli altri il tema dell'energia. Nei prossimi mesi non perdiamo tempo a litigare tra noi, c'è tanto da fare». Infine l'ultima promessa a effetto: «Nel 2015 interverremo sulle pensioni sotto i mille euro». Da Roma però Cuperlo insiste: c'è il «pericolo di abbassare la soglia dei diritti per fare del bene. Se tante persone passano con il rosso il problema non si risolve togliendo il semaforo». D'Alema lancia l'accusa più feroce: il Pd vive un «processo di impoverimento che può prendere una piega drammatica» verso «un'idea di partito-comitato elettorale del leader. Questo partito noi non lo possiamo lasciare morire». Il partito contro cui si scaglia D'Alema è andato in scena ieri a Torino. Un grande talk-show televisivo, con due neodeputati trentenni (la veronese Alessia Rotta e il romagnolo Marco Di Maio) catapultati dalle tv private e trasformati in conduttori della convention; le slide proiettate per dimostrare quant'è bravo il governo; un video autocelebrativo che mescola San Francesco e Maradona, Fantozzi e Forrest Gump. Un appuntamento che ha riunito soltanto i fedelissimi, culminato nella calca degli aspiranti sindaci a caccia di foto con Renzi da usare sui poster elettorali.
La convention di Torino è stata il festival dei selfie, il trionfo degli autoscatti con Renzi, Chiamparino, l'imbarazzato Fassino, Cofferati con pullover alla Marchionne, la Boschi, le amazzoni europee incapaci di accendere i cuori dei militanti. Perché il primo vero, scrosciante applauso è scoppiato quando il «vecchio» Sergio Chiamparino ha preso il microfono salutando così: «Cari compagni e compagne... Sapete, io sono un po' d'antan».
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