Visualizzazioni totali

martedì 9 dicembre 2014

IL SONDAGGIONE SUI TG Dalla Berlinguer a Mentana

Sondaggio Demos Coop sui tg: cala la fiducia nell'informazione televisiva




Non è un buon periodo per l'informazione televisiva. Gli italiani, secondo le ultime rilevazioni Demos-Coop segnala un calo consistente della fiducia dei telespettatori sui tg di casa nostra. I dati parlano chiaro. Quasi tutti i telegiornali delle principali reti televisive perdono consenso e anche telespettatori. Secondo i dati della rilevazione, pubblicati da Repubblica sottolineano come gli italiani stiano mutando il loro modo di informarsi virando sul web e abbandonando i tg. Va detto però che il rapporto fra gli italiani e la politica appare ancora largamente “mediato” dalla televisione. Il canale attraverso cui si informano, regolarmente, 8 persone su 10.

I numeri dei tg - Analizzando nel dettaglio i dati sui singoli tg, i più apprezzati restano quelli della Rai e in particolare il Tg3 che raccoglie il 55 per cento dei consensi. Che prevalgono largamente sui Tg Mediaset. Tra i quali, però il Tg5 presenta un livello di stima elevato al 44 per cento. Vanno molto bene le reti All-News, RaiNews 24 al 46 per cento, Sky Tg24 e lo stesso Tg di La7, sono quelli che hanno aumentato maggiormente il grado di fiducia rispetto al 2009. In particolare i Tg di Sky e, soprattutto, di Rai News 24. Mentre il Tg de La7, nell’ultimo anno, ha perduto qualche punto. Se invece si analizzano i dati incrociandoli con le preferenze degli elettori, non mancano le sorprese. 

Sfiducia nella politica e nella tv - Gli elettori della Lega per esempio mostrano maggiore fiducia verso RaiNews 24, il Tg5 e il Tg di Sky. Mentre gli elettori del M5s si fidano, anzitutto, del Tg de La7. Un dato preoccupante che allarma i direttori dei tg riguarda la coincidenza tra la sfiducia nella politica e quello nell'informazione televisiva. La stanchezza verso la politica infatti viene rispecchiata dalla sfiducia nell’ informazione tv. E, soprattutto, verso i programmi di approfondimento e dibattito. I talk politici sono stati la prima vittima di questo trend. Presto toccherà anche ai tg?

lunedì 8 dicembre 2014

Prima alla Scala come da copione: antagonisti contro polizia, è guerriglia

Milano, contestazioni alla Prima della Scala: antagonisti e comitati per la casa contro la polizia, uova e fumogeni




Prima alla Scala secondo copione: dentro, va in scena la grande lirica con il Fidelio diretto dal maestro israeliano Daniel Barenboim, fuori l'altrettanto tradizionale contestazione degli antagonisti dei centri sociali e dei comitati per la casa a suon di slogan, uova e fumogeni. In una piazza letteralmente blindata dalle forze dell'ordine e sorvolata da elicotteri, alcune centinaia di contestatori hanno cercato di "sfondare" la zona rossa istituita intorno al Piermarini, per protestare contro Jobs Act e rivendicando il diritto alla casa e al lavoro. Nelle ultime settimane la tensione a Milano ha raggiunto spesso livelli di guardia: dagli sgomberi delle case popolari occupate abusivamente e dei palazzi in mano agli antagonisti fino agli attacchi alle sedi del Pd ad opera di esponenti anarchici, l'attenzione per la Prima era altissima. 

Antagonisti nella zona rossa - Almeno un paio di volte, da ingressi diversi alla piazza, i manifestanti hanno cercato di oltrepassare il cordone della sicurezza lanciando uova, petardi e altri oggetti contro le forze dell'ordine. Tentativi respinti subito dagli agenti in tenuta antisommossa. Intorno alle 18.30 un gruppo di manifestanti dei centri sociali è riuscito ad avvicinarsi al teatro della Scala urlando slogan e lanciando petardi e lacrimogeni contro gli agenti della polizia, senza che questi caricassero i manifestanti. Il gruppo dei centri sociali si è "disperso" imboccando varie vie e la galleria Vittorio Emanuele. Alcuni di loro impugnavano aste.

Contro Renzi e i politici mafiosi - Poco prima dell'inizio del Fidelio, fanno sapere dalle forze dell'ordine, è stata sequestrata una bottiglietta incendiaria che un ragazzo aveva portato in corteo. Ma nel complesso, almeno fino all'avvio della serata di Scala, la situazione è stata tenuta sotto controllo. Numerosi gli slogan urlati dai vari "fronti" del corteo contro "Il governo Renzi fatto di ladri", contro "la casta di politici mafiosi e corrotti" e contro le autorità cittadine. Più volte è stato rivendicato il diritto alla casa e al lavoro: "Il mutuo ce l'abbiamo tutti - hanno urlato i manifestanti al megafono - e nessuno è al sicuro tranne in pochi, quelli dell'alta finanza e dell'economia". Urla e slogan sono proseguiti anche in galleria attorno al maxi schermo allestito dal Comune per consentire ai cittadini di seguire all'esterno la prima della Scala.

Marino e quello strano giro di soldi: 60mila euro al boss di Mafia Capitale

Mafia Capitale, un mese fa Ignazio Marino ha regalato 60mila euro alla coop rossa del "boss" Salvatore Buzzi

di Enrico Paoli 


Annegare in un mare di contraddizioni sapendo benissimo perché, forse, non è la miglior strategia per una giunta nell’occhio del ciclone. A meno che Ignazio Marino, sindaco di Roma, non sia vittima di sé stesso, avendo deciso di mentire consapevolmente. Un po’ come è avvenuto con le multe prese con la famosa Panda rossa. Una vicenda che l’amministratore ha spiegato ai romani con mille versioni diverse, nessuna delle quali realmente esaustiva. Per non dire delle foto che ritraggono l’ex chirurgo con Salvatore Buzzi, quello che nelle intercettazioni afferma che «si fanno più soldi con gli immigrati che con la droga». O del primo stipendio da sindaco versato alla sua coop. Il dubbio, a questo punto, che Marino abbia una certa propensione a raccontare una realtà, poi smentita dai fatti, diventa quasi una certezza. 

E l’ultimo caso è da manuale. Ad ottobre scorso, dunque ieri, la giunta Marino ha concesso alla Cooperativa 29 giugno (quella di Salvatore Buzzi) l’uso di un immobile del Comune situato in via Pomona, zona Pietralata, a prezzo di favore. Invece dei 73 mila euro di affitto all’anno stimati dai tecnici del Campidoglio la giunta decide di concederlo a Buzzi a soli 14 mila euro all’anno. Se non è un’evidente contraddizione gli assomiglia molto. Perché uno sconto di quasi 60mila euro? Davvero Marino non sapeva quale fosse la valenza dell’atto? Lo stabile in questione, 5 locali distrubuiti su mille metri quadrati coperti, è stato preso in affitto dalla cooperativa per realizzarci la sede operativa della stessa, mentre una parte è stata adibita a Centro d’accoglienza temporanea. Insomma, il 24 ottobre scorso la giunta Marino non licenzia un atto di ordinaria amministrazione, ma delibera un atto di particolare importanza. Delle due l’una: o Marino non sa cosa accade in giunta, oppure lo sa perfettamente e rimuove gli atti che diventano rischiosi. E si scorda del primo stipendio versato alla cooperativa.

Giusto ieri il primo cittadino della Capitale, autoconvintosi di essere la soluzione di tutti mali e l’arma vincente del Pd, in una lunga intervista al quotidiano comunista Il Manifesto ha ribadito che con Buzzi (uno dei due perni dell’inchiesta romana assieme a Massimo Carminati) «non ho avuto conversazioni di lavoro né quel giorno né mai». E a proposito delle foto che lo ritrae assieme a Buzzi, Marino canta la stessa canzone: «Durante la campagna elettorale ho visitato quella cooperativa che, dal mio punto di vista, faceva un lavoro utile alla collettività». Talmente utile da votare un supersconto dell’affitto per la nuova sede della Cooperativa. «L’ufficio stime del Dipartimento», si legge negli atti del Comune, «ha valutato a prezzo di mercato, quale canone di concessione dell’immobile in questione, l’importo annuale di euro 73.764 e mensile di euro 6.147». In tempi di crisi uno si aspetta che un’amministrazione accorta chieda quella cifra. Invece, per la durata di sei anni, il canone chiesto è di soli 14.752,80 euro all’anno, pari a 1.229, 40 euro al mese. Altro che sconto, quello fatto a Buzzi dal Comune è un vero e proprio saldo.

Ufficiale: ormai l'Italia di Renzi è "quasi spazzatura" Ecco come salvarsi in tre mosse. Altrimenti è la fine

Italia declassata, le tre mosse per salvarci: debito, tasse, statali

di Carlo Pelanda 


Nei prossimi 3 anni l’Italia galleggerà a pelo d’acqua. Tutte le proiezioni correnti prevedono una crescita attorno allo 0,5% nel 2015 e a cavallo dell’1%, più sotto che sopra, nel 2016-17. Meglio che affondare? Attenti, stagnazione prolungata significa impoverimento sistemico: figli che migrano, figlie costrette ad umiliarsi. Possibile? Il governo non sta alleggerendo i pesi che soffocano la crescita. Infatti l’uscita dalla recessione nel secondo trimestre 2015 non sarà spinta dalla politica economica, ma da fattori diversi: (a) la svalutazione dell’euro che facilita l’export e l’importazione di turismo; (b) un minimo aumento dei consumi dovuto al fatto che tante famiglie, pur con poca fiducia nel futuro, dovranno comprare una nuova auto o il guardaroba del bimbo che cresce, ecc., cioè il fenomeno della «ripresa passiva»; (c) un leggero miglioramento del credito grazie alla stimolazione monetaria della Bce; (d) una riduzione (temporanea) dei costi dell’energia importata. L’insieme di questi fattori potrebbe dare una spinta ben maggiore alla crescita, ma il mantenimento di pesi fiscali eccessivi farà continuare la caduta recessiva di parte del mercato interno. Pertanto la somma tra fattori di spinta e caduta mostra come risultato un misero 0,5% nel 2015, cioè il galleggiamento, poi seguito dalla «stabilizzazione destabilizzante» della stagnazione. 

La stimolazione - Un’analisi simile ha portato S&P a declassare l’affidabilità di lungo termine del debito italiano, nell’ambito di una previsione di non peggioramento nel medio termine. Significa che l’Italia in mero galleggiamento potrà ripagare il debito nei prossimi due o tre anni, ma che poi, senza cambiamenti, potrebbe non riuscirci più perché dopo recessioni e stagnazioni prolungate è probabile, senza discontinuità di modello, una spirale depressiva. Mi spiace considerare di efficacia nulla l’azione del governo Renzi che sta rompendo tanti tabù, ma la verità è che il suo progetto di stimolazione economica è e sarà insufficiente: sposta le tasse senza ridurle, modifica in modo irrilevante le norme protezioniste sul lavoro e, soprattutto, mostra poca reattività concreta alla crisi. Ed è ovvio: una maggioranza di sinistra, anche se guidata da un pragmatico, non vorrà mai ridurre le tasse in quanto i suoi elettori in stragrande maggioranza vivono di denaro pubblico. Il punto: senza detassazione stimolativa, cioè senza trasferire una gran massa di capitale dall’intermediazione burocratica al mercato, non sarà possibile invertire la stagnazione-declino. Italia condannata? Non necessariamente, perché la maggioranza degli italiani vive di mercato e se fosse possibile condensare in forma politica la rappresentanza dei loro interessi vi sarebbe il consenso per un’operazione mega-stimolativa: (1) abbattimento della spesa pubblica di circa 100 miliardi; (2) riduzione delle tasse di 70, lasciandone 30 di margine al servizio dell’equilibrio di bilancio; (3) abbattimento di circa 500 miliardi del debito pubblico (2.100 miliardi, circa) con una operazione «patrimonio contro debito» (ripagare parzialmente con obbligazioni basate sul rendimento del patrimonio pubblico i possessori di titoli invece di emettere nuovo debito) allo scopo di portarlo vicino e poi sotto al 100% del Pil, così risparmiando ¼ della spesa annua per interessi nonché altri soldi per il rifinanziamento del debito residuo grazie ad un aumento del rating. 

La simulazione - Questi numeri sono usciti da una simulazione, continuamente aggiornata dal 2010, fatta dal mio gruppo di ricerca con l’obiettivo di trovare le quantità allo stesso tempo utili e possibili per invertire il destino dell’Italia, in costanza dei vincoli europei. Semplificando, con tale operazione l’Italia volerebbe rapidamente verso una crescita prolungata oltre il 3% annuo perché la tassazione (totale) sulle imprese andrebbe al 20% e quella sulle famiglie sarebbe ridotta di almeno 1/5. Non dovrebbe essere fatta tutto e subito, ma basterebbe renderla credibile per far scontare al mercato immediatamente il buon esito futuro, bilanciando così con un effetto fiducia - che scongela il risparmio - l’impatto deflattivo momentaneo del taglio di spesa. Il dissenso da parte degli statalisti sarà violento. Ma dobbiamo dirci la verità: senza una tale operazione, che per altro non riduce la socialità dello Stato, l’Italia è finita. Suggerisco, infatti, di chiamare l’operazione tecnica detta sopra «operazione verità», luce che spero illumini il popolo del mercato affinché si compatti e salvi se stesso e la nazione sostenendo l’unica soluzione veramente efficace. 

CLAMOROSA PROFEZIA DI PANSA "Cacciano Renzi, arriva il militare e..."

Giampaolo Pansa e la profezia su Renzi: "Lo cacciano, arriva un militare. E poi..."

di Giampaolo Panza 


Il caos politico-criminale al municipio di Roma provocò le dimissioni del sindaco Ignazio Marino. E subito dopo quelle del governo di Matteo Renzi, ferito dal marciume che tracimava dal Partito democratico della capitale. Una gran parte della Casta si precipitò a strillare che il successore di Renzi, chiunque fosse, doveva essere sempre un politico professionale, pronto a riconoscere il primato dei partiti. Per questo la Casta rimase sgomenta quando apprese le intenzioni del vecchio presidente della Repubblica. Il padrone del Quirinale stava cucinando un piatto molto indigesto per la politica politicante. Voleva mandare a Palazzo Chigi un signore sconosciuto alla Casta. Un alieno, che per di più vestiva una divisa. Un generale dei carabinieri. Un certo Silvestro Rambaudo. 

Il Transatlantico di Montecitorio cadde nel panico. Non si era mai visto in Italia un generale diventare capo del governo. Era successo in altri paesi e in momenti eccezionali. In Grecia, Cile, Argentina e Polonia. Ma dal 1948 in poi, a Palazzo Chigi era sempre entrato un politico eletto dal popolo, mai qualcuno imposto da un’autorità esterna come in fondo era l’inquilino pro tempore del Quirinale. E poi chi era questo Rambaudo? Verso la fine del dicembre 2014 non fu difficile tracciare il profilo del futuro premier. Silvestro Rambaudo aveva 55 anni ed era un generale di divisione dell’Arma dei carabinieri. Nato ad Asti da una famiglia di coltivatori diretti, aveva sempre desiderato entrare nella Benemerita. Dopo la laurea in Giurisprudenza, si era arruolato nell’Arma, che l’aveva subito inviato alla Scuola ufficiali.

Grazie all’intelligenza e al carattere, Rambaudo si era fatto strada rapidamente. Prestando servizio in Libano, poi in Iraq e quindi in Afghanistan. E aveva scalato la gerarchia sino a diventare colonnello, poi generale di brigata e infine generale di divisione. Il dato sorprendente è che non aveva mai goduto di protezioni politiche. Né quelle nascoste, in grado di sostenerlo nella carriera. E neppure quelle lecite, da lui sempre rifiutate. Veniva dipinto come un signore taciturno, che sapeva tutto della politica italiana, pur restandone ben lontano. Un bravo tattico e un eccellente stratega. In grado di parlare alla perfezione inglese, tedesco e francese. Aveva un aspetto fisico che colpiva: alto, magro, barba corta, capelli sale e pepe rasati quasi a zero. Il volto da contadino, lo stesso del padre e del nonno. Di carattere era un freddo, capace di mantenere la calma anche nei frangenti più rischiosi. Gli uomini al suo comando lo adoravano, perché era un comandante severo, ma giusto, che aveva cura dei sottoposti e non si sottraeva alla fatica e alle responsabilità. 

Il Presidente aveva conosciuto Rambaudo all’inizio del novembre 2014, durante una visita al contingente italiano in Afghanistan. Anche il generale si trovava alla nostra base di Herat per un’ispezione. E quel giorno il capo dello Stato, con uno strappo al cerimoniale, si concesse un’ora di colloquio a tu per tu con il generale. Iniziando a chiedergli come giudicava le condizioni dell’Italia. Rambaudo gli disse di essere molto preoccupato di quanto avveniva nel paese. Vedeva una nazione sfibrata e in declino. In preda al disordine politico, l’origine di tutti i mali: la corruzione, la gigantesca evasione fiscale, la protervia della criminalità organizzata, le violenze dei gruppi antagonisti, la disperazione dei quartieri popolari, l’assenza di sicurezza. A tutto questo, aggiunse il generale, si accompagnava un’immoralità pubblica e privata senza precedenti: un altro riflesso della crisi etica, persino più corrosiva della crisi economica. Disse: «Le grandi città italiane sono diventate luoghi infernali senza legge. I miei ufficiali le descrivono in mano a politici senza scrupoli, a depravati sessuali che non risparmiano i bambini e a bande criminali capaci di qualsiasi malvagità». 

Il presidente chiese a Rambaudo: «Lei ritiene possibile mettere un argine a questo sfacelo?». Il generale rispose: «Non lo so. Forse si potrebbe tentare di imporre di nuovo la legge e l’ordine. Ma per riuscirci sarebbe indispensabile l’aiuto generoso di un ceto politico ancora provvisto di un minimo di dignità e di senso del dovere. In Parlamento esistono uomini e donne così? A un militare non spetta dare giudizi sui partiti. Tuttavia non voglio esimermi dal dirle che siamo perigliosamente vicini al punto di rottura…». «Che cosa intende per rottura?» gli domandò il Presidente. «Intendo un colpo di Stato» chiarì il generale. «Di solito i golpe nascono nella testa di chi intende compierli. Ma hanno sempre bisogno di essere giustificati. Con il disordine che regna in un paese. O con l’aggravarsi di un degrado che appare privo di soluzione. Nel caso italiano sono presenti entrambe queste condizioni. Per questo credo che la nazione sia a un passo da un ciclo di violenze che ci farebbero ricordare la guerra civile. Le ho presentato uno schema teorico, signor Presidente». «E sul piano pratico che cosa potrebbe accadere?» chiese il capo dello Stato. «Niente di traumatico, a parte una nostra lenta discesa in un baratro di mediocrità e di miseria. Le gerarchie militari sono fedeli alla Repubblica. E non prenderebbero mai le armi per sostituirsi al Parlamento. Del resto, l’Europa e i mercati finanziari sarebbero pronti a impedire un golpe in Italia. Per di più, i miei colleghi generali hanno imparato che non conviene essere golpisti. La storia del Novecento ci ha insegnato che i colpi di Stato non portano a nulla. A parte un solo caso: quello di Mussolini». 

Il Presidente rimase in silenzio per lunghi istanti. Poi interrogò di nuovo Rambaudo: «Se le cose stanno come dice lei, generale, quale soluzione abbiamo per affrontare le tante crisi italiane?». Il generale si strinse nelle spalle: «Presidente, io non sono un leader politico e neppure un esperto economia o un politologo. Credo che l’unica strada da percorrere sia di mettere in sella un governo che sappia avere la mano dura nei confronti di chi tiene l’Italia sui carboni ardenti. Ma senza violare la Costituzione, né spargere sangue. Può nascere un governo siffatto? La risposta a questa domanda spetta soltanto a lei». 

Il capo dello Stato ringraziò Rambaudo, poi usci dalla tenda e si apprestò a ripartire per Roma. Un mese dopo, quando le trattative per un nuovo governo languivano, il Presidente convocò al Quirinale il generale. Gli disse: «Non ho dimenticato il nostro colloquio a Herat. Lo riassumo così: l’Italia ha bisogno di un governo affidato a un uomo di polso, che non abbia interessi elettorali, un tecnico capace di tenere in pugno un paese che si sfalda. Per questo ho pensato a lei, generale. Conosco il suo percorso professionale e il suo carattere. Lei è un militare con una grande esperienza di comando nell’arma dei carabinieri e riuscirà di certo a trasferirla nelle stanze di Palazzo Chigi». 

Superata la sorpresa, Rambaudo replicò: «Signor presidente, non mi sembra un’idea felice. Affidare il governo a un generale dei carabinieri, anche se di indubbia fede democratica, farà strillare a molti che è in atto un golpe. Sia pure non dichiarato e soffice, senza carri amati per le strade, né arresti di oppositori politici…». Il capo dello Stato gli ribatté: «Se molti strilleranno, toccherà a noi convincerli del contrario. Quello che conta è la scelta dei ministri, ma in questo compito l’aiuterò io. Le garantisco che avrà la fiducia del Parlamento. Sarà un voto favorevole anche se a denti stretti. Però lo otterrà». Il generale Rambaudo si alzò e allargò le braccia, rassegnato: «Lei mi affida una croce che non immaginavo di portare. Una croce pesante che non sono sicuro di saper reggere. Però mi trovo di fronte al presidente della Repubblica e dunque obbedirò». 

Nel marzo 2015, l’ingresso di Rambaudo a Palazzo Chgi fu meno difficile del previsto. La destra lo acclamò perché era un militare. La sinistra gridò al golpe, ma poi lo votò. In tutti i partiti era prevalso un calcolo cinico: «Se il generale andrà a sbattere, come è inevitabile, la colpa sarà soltanto sua e non nostra». All’opposizione rimase soltanto qualche irriducibile, ma con poche speranze di contare. Del resto, il programma del governo non poteva che essere quello dettato dall’Europa e dalla grande recessione mondiale che seguitava a infuriare. I capisaldi erano sempre gli stessi: massima austerità, taglio spietato della spesa pubblica, rigore finanziario. Le sinistre provarono per l’ennesima volta a chiedere un’imposta patrimoniale straordinaria a carico dei presunti ricchi. Ma il premier Rambaudo, dati alla mano, dimostrò che esisteva già e sarebbe stata soltanto una misura punitiva e dannosa. 

Il primo guaio incontrato da Rambaudo fu tremendo. Il sistema bancario iniziò a traballare. Alcuni piccoli istituti di credito bloccarono i conti correnti dei clienti. La rabbia dei correntisti diventò feroce. Molte agenzie vennero assalite. I presidenti di due grandi banche furono assassinati da killer sconosciuti. Nei loro volantini di rivendicazione i killer si definirono i nuovi Robin Hood. Tutta l’Italia si era impoverita. Nella primavera del 2015 i consumi continuarono a ridursi. I negozi vendevano le merci sotto costo, ma gli acquirenti scemavano. La disoccupazione si fece drammatica. Le casse dello Stato erano quasi vuote. Rimaneva soltanto quanto bastava per pagare lo stipendio dei dipendenti pubblici, le pensioni e far funzionare i servizi essenziali. 

Grandi opere pubbliche non se ne vedevano più. Anche la manutenzione ordinaria diventava difficile. Lo confermava lo stato delle strade, in condizioni pessime e tutte rabberciate alla meglio. In molte città, le famiglie rimaste senza soldi vendevano in bancarelle improvvisate i ricordi di un’epoca felice: corredi da sposa, vasellame di pregio, oggetti d’oro e d’argento. Da Palazzo Chigi il premier assisteva impotente all’agonia del paese. Usando la severità necessaria, Rambaudo era riuscito a imporre un minimo di ordine, a tenere a bada i corrotti, ad arrestare criminali e mafiosi, ma niente di più. L’Italia stava morendo. Anche attività ritenute tra le più salde languivano. A cominciare da quelle frivole. Non si giravano più film. I programmi della televisione pubblica a privata ripresentavano vecchi spettacoli. Venivano trasmessi soltanto i telegiornali. Godevano di un ascolto altissimo, poiché tutti volevano sapere che cosa stesse accadendo. 

Pure il sistema sanitario sembrava sull’orlo del tracollo. Per garantirlo, il governo Rambaudo intensificò la caccia agli evasori fiscali. I controlli sui redditi diventarono sempre più sofisticati. Venne varata la legge «Manette agli evasori». I contribuenti infedeli erano indicati al pubblico disprezzo con nome e cognome. Nel carcere di San Vittore morì d’infarto una grande firma della moda. Un famoso attore dei cinepanettoni si uccise in cella soffocandosi con una busta di plastica. Tre banchieri vennero arrestati per aver trasferito capitali all’estero. 

Il Terrore fiscale ebbe successo. Le entrate dello Stato migliorarono, ma i conti pubblici restarono in rosso. La tivù di Stato precipitò nella depressione più nera. La Rai optò per una sola rete e lo stesso fece Mediaset. La Sette fu comprata dagli Emirati arabi. Venne mandato a casa il direttore del tigì Mentana, considerato troppo anziano e incapace di catturare telespettatori giovani. Qualche reduce dei talk show si rifugiò alla tivù albanese che aveva allestito un programmino in italiano. Anche il campionato di calcio ne risentì. In serie A giocavano soltanto dieci squadre. I compensi dei campioni erano ridotti all’osso. Gli stadi risultavano mezzi vuoti perché soltanto pochi potevano permettersi di comprare i biglietti. Lo scudetto lo vinse una squadra di Bari nata da poco: la Padrinese Fbc, finanziata da una società delle Isole Cayman e in mano alla Sacra corona unita. Rambaudo la chiuse. Le librerie persero clienti su clienti. I pochi quotidiani rimasti in vendita uscivano a otto pagine e senza pubblicità. L’uso del web venne tassato in modo pesante e crollò. Anche twittare costava un occhio della testa. Fu l’unico fatto positivo in un tempo di disgrazie. 

L’inverno 2015-2016 cominciò con grandi bufere di neve che investirono l’intero paese. Il governo Rambaudo ordinò che a partire dal 1° gennaio 2016 il riscaldamento negli uffici pubblici e nelle case private venisse limitato a tre ore al giorno. Soltanto gli asili e gli ospedali furono esentati dall’obbligo. Nelle scuole elementari erano ammesse appena le stufe a legna, purché alimentate dai ceppi che gli alunni portavano in classe ogni mattina. Il presidente della Repubblica, una vera roccia, lesse il messaggio di Capodanno indossando il cappotto.

Malgrado il freddo arrivarono in Italia schiere di cinesi pronti ad acquistare aziende e palazzi. E si trovarono di fronte a una novità. Il premier Rambaduo aveva introdotto la tessera per i beni di prima necessità, tutti razionati. Informò il paese che la borsa nera sarebbe stata repressa con anni di carcere. Gli italiani misero in pratica un’arte che conoscevano da secoli: quella di arrangiarsi. 

L’Italia cambiò faccia. Le università si svuotarono di migliaia di studenti sfaticati, anche perché le rette erano cresciute del trecento per cento. Molti giovani si decisero a fare mestieri che avevano sempre rifiutato. La concorrenza con gli extracomunitari diventò senza pietà. Le colf e le badanti italiane ormai si trovavano con facilità. Questo consentì di accudire gli anziani meglio di prima. Era fortunato chi possedeva un pezzo di terra: il lavoro dell’agricoltore ritornò di moda. Permaneva un solo risvolto negativo: l’aumento impressionante dei furti e delle rapine. Ma sotto la sferza del premier Rambaudo, le forze dell’ordine si dimostrarono implacabili. Una volta arrestati, i delinquenti restavano in galera, con il regime previsto per i mafiosi, il 41 bis. I campi rom non furono chiusi, ma vennero messi sotto la sorveglianza di una rete di marescialli dei carabinieri che imposero ordine e pulizia. 

Rambaudo era riuscito nell’impresa più urgente: ripristinare l’imperio della legge. La condizione indispensabile per tentare di risalire dal baratro del collasso. Infine emerse una sorpresa positiva: le coppie giovani facevano più figli di prima. Poteva sembrare un paradosso. Ma soltanto a chi dimenticava quanti italiani fossero nati nell’Italia devastata dalla seconda guerra mondiale. Tutto venne riassunto da un libro di grande successo, scritto un’anziana sociologa. Il titolo diceva: «Era ora!». Il sottotitolo spiegava: «La Grande Crisi ci rende migliori. Nascono più bambini e il futuro sarà rosa». 

sabato 6 dicembre 2014

Arriva il nuovo codice della strada Quando scatta l'ergastolo della patente

Ergastolo della patente a ubriachi e drogati che uccidono al volante

di Alessandra Mori


L’ergastolo della patente è un po’ più vicino. Una manna dal cielo per automobilisti e pedoni disciplinati. Una vera - e giusta - iattura per chi si mette alla guida dopo aver alzato un po’ troppo il gomito o essersi «fatto» di droghe varie, e causa la morte di qualcuno. Dopo il via libera della Camera dello scorso ottobre, la questione è passata all’esame del Senato. E ieri l’emendamento alla proposta di legge di modifica del Codice della strada, depositato dal relatore e presidente della commissione Trasporti Michele Meta (Pd), ha segnato un altro punto in questa direzione, spianando di fatto la strada al reato di omicidio stradale. «Quando la revoca della patente di guida è disposta per il conducente che ha commesso il reato di cui all’articolo 589, terzo comma, del Codice penale (omicidio colposo in stato di ebbrezza o di alterazione psicofisica) il soggetto non può conseguire una nuova patente di guida. Nel caso in cui il conducente che ha commesso il reato non sia provvisto di patente, non può conseguirla», si legge nel testo.

Addio patente - In pratica, chi uccide una persona per strada perché ubriaco o sballato al volante, deve rinunciare a vita alla patente. Un deterrente molto forte, che si spera riesca a scongiurare le tante, troppe morti che ancora oggi si contano sull’asfalto. Come ha confermato, proprio ieri, il vice ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, Riccardo Nencini. Parlando di sicurezza stradale di fronte a trecento ragazzi delle scuole di Scampia, Nencini ha ammesso: «Il numero di incidenti stradali mortali è molto diminuito con l’introduzione della patente a punti, ma è un numero ancora troppo alto e dobbiamo fare in modo che scendano le statistiche». Se è vero infatti che nel 2013 le vittime di incidenti stradali sono state 3.385 rispetto alle 3.753 dell’anno precedente, è altrettanto vero che «siamo ancora il Paese col maggior numero di vittime in tutta l’Europa dei 28». Parola di Giordano Biserni, presidente dell’Asaps (associazione sostenitori e amici Polstrada), che tiene sotto controllo i dati sulla mortalità delle strade italiane.

Droga e alcool - Tornando all’emendamento proposto, esso aggiunge un comma all’articolo 219 del Codice della strada sulla revoca della patente, recependo il parere della commissione Giustizia, e agisce anche sull’articolo 187 del Codice della strada (Guida sotto l’influenza di sostanze stupefacenti) e sul 589 del Codice penale, sostituendo la formula «in stato di alterazione psicofisica dopo l’assunzione di sostanze stupefacenti o psicotrope» con «in stato di alterazione psico-fisica causata dall’assunzione di sostanze stupefacenti o psicotrope». Perché mentre l’alcol viene velocemente assorbito dall’organismo, le tracce degli stupefacenti permangono nel tempo, e un soggetto potrebbe risultare positivo pur avendoli assunti giorni prima e non trovarsi più quindi in stato di alterazione psico-fisica al momento dell’incidente.

S'infiamma il Toto-Quirinale Spunta una big della Rai per il Colle...

Rai, Anna Maria Tarantola in corsa per il Quirinale





Col passare dei giorni e soprattutto con l'avvicinarsi della fine dell'anno si infiamma il toto-Quirinale. Secondo le ultime indiscrezioni raccolte da Affaritaliani.it, crescono le quotazioni per il Colle della presidente della Rai Anna Maria Tarantola. Primo punto a suo favore: è una donna. Secondo: è una figura tecnica e con un curriculum di tutto rispetto da giurista ed ex BankItalia. Sarebbe - secondo quanto risulta ad Affaritaliani.it - una presidente della Repubblica perfetta per il premier Renzi, in quanto non sarebbe "troppo ingombrante" e lascerebbe molto spazio di manovra al segretario del Partito Democratico. Insomma, sarebbe meno "interventista" di Giorgio Napolitano. 

Soluzione tecnica - La Tarantola, tecnico per eccellenza, potrebbe trovare anche il gradimento di Silvio Berlusconi e di buona parte di Forza Italia. Più difficile che arrivi l'ok dal Movimento 5 Stelle. Qualora dovessero tramontare le ipotesi "politiche", Pinotti in testa e Finocchiaro in seconda battuta, la presidente della Rai diventerebbe davvero in pole position per il Colle. Sarà anche quella della Tarantola una candidatura bruciata?