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domenica 5 ottobre 2014

Sindaci che sprecano da nord a sud Ecco come "usano" i nostri soldi

Comuni spreconi, da nord a sud tutti i paradossi delle spese municipali




Si definiscono "Comuni virtuosi" quelli che spendono meno di quello che dovrebbero. Almeno secondo i criteri utilizzati dalla Sose, una società per azioni controllata dal ministero dell'Economia e dalla Banca d'Italia a cui è stato affidato l'incarico di mettere a punto i fabbisogni standard degli enti locali. Ebbene la Sose dal 2010 sta raccogliendo i dati relativi a 6.702 Comuni e Province delle 15 Regioni a statuto ordinario dove risiedono 51 milioni e mezzo di abitanti pari all'85% della popolazione e fra un mese stilerà la classifica dei municipi di manica larga. Ma, avvertono Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella che oggi sul Corriere hanno pubblicato un'anticipazione dello studio, il non considerare la quantità e la qualità dei servizi offerti può generare disastri. Si rischia, cioè, come ammoniscono Massimo Bordignon e Gilberto Turati della lavoce.info, di identificare tra i risparmiosi quelli che non offrono i servizi e tra gli spendaccioni quelli che invece i servizi li offrono.

Virtuosi, ma senza servizi - Lo dimostra il confronto tra Perugia e Lamezia Terme. Il capoluogo dell'Umbria ha la peggiore performance in assoluto: nel 2010 ha superato del 31% la spesa standard. Lamezia al contrario, nello stesso anno, ha risparmiato il 41% tagliando sulla riscossione dei tributi (35 mila euro contro un fabbisogno di 446 mila), gli asili nido (641 mila euro contro 930 mila) e il sociale: 2 milioni 522 mila contro 7 milioni 439 mila. Scelte imposte dal peso esorbitante di servizi burocratici come l’anagrafe, lo stato civile e il servizio elettorale: 1.162 mila contro un fabbisogno tre volte più basso, 468 mila. Perugia invece ha speso 36,2 milioni contro i 6,2 stimati come fabbisogno standard per l’ambiente, 31,7 milioni contro 22,5 per lo smaltimento dei rifiuti e 25,3 milioni contro 4 per i trasporti pubblici. 

Altro esempio riportato da Rizzo e Stella è quello di Casal di Principe, la cittadina della "terra dei fuochi" tenuta in ostaggio per decenni dai Casalesi. Anche Casal di Principe risulta tra i comuni più virtusosi della Campania: nel 2010 ha speso il 41,6% in meno del fabbisogno standard. Ma andando a vedere come spendeva quell’anno i denari pubblici, viene fuori che che per gli uffici preposti a raccogliere le tasse comunali, c’erano briciole. Fabbisogno stimato da Sose: 113.242 euro. Euro impiegati: 167. Cioè 678 volte di meno. Quanto all’ambiente, devastato dai veleni scaricati perfino nel cortile della ludoteca, il fabbisogno stimato era di 445.949: ne spesero un quarto. I denari servivano per la burocrazia municipale. Costosissima.

Roma, Napoli, Milano - Costosissima come quella di Roma: nel 2010 ogni cittadino spendeva per i servizi fondamentali 1.695 euro, dei quali 400 per mantenere i dipendenti municipali. A Milano 1.830: 441 per il personale. A Napoli 1.416 euro: per i "comunali" 477. Entrando nel dettaglio delle spese di questi tre capoluoghi, Rizzo e Stella, mettono in evidenza i costi della polizia locale. Il fabbisogno standard di Roma è fissato in 323 milioni: nel 2010 spese il 14,5% in più. All’opposto Milano, che sborsò per i vigili il 38,3% in meno ma anche Napoli, che "risparmiò" il 29%. Eppure il Campidoglio, in quel 2010 preso in esame, fornisce ai cittadini in qualità e quantità molto meno di Palazzo Marino. Lo dimostrano i dati delle multe stradali: i 5.998 vigili di Roma elevavano manualmente 929.442 contravvenzioni (154 a testa: tre a settimana), i 3.179 colleghi milanesi 1.178.780: 370 pro capite, più di una al giorno. Per non parlare delle 79.870 sanzioni di diverso genere fatte a Milano contro le 27.990 di Roma e le appena 963 di Napoli. O dei 255 arresti effettuati dai «ghisa» ambrosiani a fronte dei 110 dei pizzardoni capitolini e dei 64 dei «caschi bianchi» partenopei. 

Non va meglio per quanto riguarda gli affitti. Nonostante sia proprietario di 59mila immobili il Comune di Roma in mano a Gianni Alemanno, pagava nel 2010 per i locali occupati dalla polizia municipale canoni per tre milioni e mezzo contro i 30.017 euro di Milano: 117 volte di più. Una spesa mostruosa. Che costringeva il Campidoglio a risparmiare su tutto il resto.

Tfr anticipato, Squinzi contro Renzi: "Sarà un vantaggio solo per il Fisco Chiuderanno tante piccole imprese"

Tfr, Squinzi contro Renzi: "Ne beneficia solo il Fisco. Spariranno 12 miliardi delle piccole imprese"




Tornano ad allontanarsi le strade di Confindustria e Governo. Dopo un lungo corteggiamento, gli industriali voltano le spalle a Matteo Renzi tutto d’un colpo. La goccia che ha fatto traboccare il vaso pare sia stata la notizia apparsa sul 'Corriere della sera', secondo cui il Governo intenderebbe far uscire dall’associazione degli industriali Enel, Eni, Poste e Finmeccanica. Se a questo carico da novanta che per viale dell’Astronomia vale 25 milioni, si aggiungono l’intervento su Tfr e la nuova modifica al job act, oltre al possibile aumento dell’Iva, era logico aspettarsi da Giorgio Squinzi un attacco al Governo. Che oggi è puntualmente arrivato dal palco napoletano del Forum della piccola industria, la categoria più colpita dall’intervento sul trattamento di fine rapporto. «Per quel poco che si è capito finora dall’annuncio di un intervento sul Tfr, l’unico reale beneficiario di questa operazione sarebbe il Fisco - ha detto Squinzi nel suo intervento alla Città della Scienza - l’ipotesi sul tfr fa sparire con un solo colpo di penna circa 10-12 miliardi per le imprese italiane, se questa è la strada che s’intende seguire la risposta è semplice. Ce l’ho già oggi: è no».

Questione fiscale - A poco sono quindi servite le parole del viceministro Carlo Calenda, che dallo stesso palco poco prima di Squinzi aveva rassicurato gli mprenditori che se si toccavano le risorse delle imprese non se ne faceva nulla. L’unica soluzione possibile in tal senso sarebbe usare i fondi della Bce per pagare il Tfr, ma qui era stato già ieri il leader della piccola impresa, Alberto Baban ad opporre un ancora più marcato rifiuto. In realtà però Squinzi le parole più dure al Governo le ha riservate su altri temi. «A chi governa il coraggio non difetta. È una gran dote che apprezzo» ma «il coraggio più utile e degno di fiducia, è quello in grado di stimare il pericolo da affrontare» ha detto il fondatore della Mapei. Squinzi poi ha anche chiarito come anche questo Governo, non mantenga le promesse: «Siamo in zona Cesarini per mettere mano seriamente alla questione fiscale. La delega che pareva essere avviata su un buon cammino si è persa. Approvata a marzo, sulla Gazzetta Ufficiale non è ancora approdato uno, dico un decreto attuativo». Il rischio è che non si faccia nulla anche sul fronte lavoro. Qui Squinzi è stato ancora più chiaro: «I passi fin qui fatti sono assai apprezzabili, per determinazione e coraggio. Non è stato facile, ne siamo consapevoli, ma non regaliamo l’ultimo miglio alla paura». «Non è una legge a creare occupazione. Sappiamo però che una legge malfatta i posti di lavoro può distruggerli» ha proseguito Squinzi ricordando che «la ragionevolezza consiglierebbe dunque di andare in una direzione che renda più facile creare il lavoro e meno costoso quello stabile e di qualità» aggiunge, «se si decide di cambiare come i tempi della crisi ci sollecitano, facciamo davvero, senza mediazioni che tolgano coraggio e senso al provvedimento». Un Governo quindi che sia ancora più deciso del solito, anche perché «non c’è da vincere solo la battaglia sul reintrego o meno, c’è un intera filiera della conservazione da battere, che è molto ben organizzata. Ed è efficiente». «La vera riforma è culturale, ed è convincere la parte del Paese che pensa solo a rivendicare diritti ormai inesigibili» ha aggiunto.

Europa ibrida - Senza contare che poi anche l’Europa sembra aver perso presa ed autorevolezza: «La corda del cieco e ostinato rigore è stata tirata troppo a lungo e così dall’Europa della convergenza si rischia di cadere in quella delle decisioni unilaterali». «La scelta francese apre un potenziale conflitto non solo con i rigoristi - ha aggiunto Squinzi riferendosi al mancato rispetto del patto di stabilità annunciato da Parigi - ma anche con i Paesi che hanno dovuto bere l’amara medicina del rigore e del commissariamento». Un’amarezza inedita verso Bruxelles, che travolge Squinzi: «Oggi facciamo fatica a sentirci europei. Anche un europeista convinto come me comincia a covare dubbi non sull’Europa, ma si come è stata costruita la casa europea finora - ha concluso - oggi abbiamo l’euro e poco altro, troppo poco».

Multe, addio al bollettino postale Ecco come si pagheranno...

Multe: ora si pagheranno pure col bancomat




Novità sul fronte multe: in un futuro molto prossimo potreste pagare le vostre contravvenzioni direttamente col Bancomat. Istantaneamente quindi: sull'onda della nuova norma introdotta dal Decreto del fare (30% di sconto se pagate entro 5 giorni) i Comuni stanno cominciando ad accorciare i tempi e a mandare in pensione anticipata sia il vecchio (e antipatico) blocchetto, sia il bollettino postale.

Lo sconto - Novità introdotta nel comune di Genova, l'innovazione sembra piacere molto ai cittadini liguri che così evitano l'inconveniente del "rimando" e della fila in Posta, risparmiando pure quel beffardo Euro in più. Il periodo di sperimentazione sta quindi dando degli ottimi risultati. L'aspetto su cui si sta puntando molto è semplice ed è quello del risparmio: grazie allo sconto, il divieto di sosta che "vecchia maniera" costava al portafoglio 41 euro, ora comporta l'esborso di "solo" 28,70 euro, che, pagati subito, diventano solo un brutto ricordo. 

Eccezioni - Va da sé che non tutte le contravvenzioni si potranno pagare sul posto e con lo sconto: fanno eccezione tutte quelle per cui non è consentito il pagamento in misura ridotta, o è prevista la confisca del veicolo o la sospensione della patente, come la guida in stato di ebbrezza e sotto l'effetto di sostanze stupefacenti.

Giallo sulle nozze di Elisabetta Canalis. Spunta un documento: "Le nozze non sono valide". Ecco perché...

Giallo sulle nozze di Elisabetta Canalis. Spunta un documento: "Le nozze non sono valide"




Giallo sulle nozze di Elisabetta Canalis e Brian Perri. A quanto pare, secondo quanto racconta il settimanale Di Più, le nozze non sarebbero state convalidate. Un documento pubblicato dal settimanale, mostra l'"Avviso di celebrazione del matrimonio" e attesta che il 14 settembre scorso Elisabetta Canalis e Brian Perri si sono sposati ad Alghero, ma indica un irregolarità: la Canalis non avrebbe annunciato le sue nozze al Comune di Milano, dove risiede, con le pubblicazioni di matrimonio come prevede la legge. "Questo documento", spiega a Di Più l'avvocato matrimonialista Gian Ettore Gassani "rimane pubblico per dieci giorni consecutivi per permettere a chi abbia valide ragioni di farsi avanti e contestare il matrimonio. Inoltre la Canalis, - aggiunge Gassani - lo sposo, e il sacerdote che ha officiato il rito, che aveva anche lui l'obbligo di controllare le pubblicazioni, hanno commesso una infrazione e pagheranno una ammenda da duecento euro a testa". 

Processo a Carlo De Benedetti Ecco chi pagherà i suoi danni...

Se arriva la condanna, i danni di De Benedetti li pagherà la Telecom

di Giacomo Amadori 


A Ivrea, nell’inchiesta per i morti di amianto all’Olivetti, sta per iniziare il gran ballo dei risarcimenti. Infatti per gli eventuali imputati sarà più facile ottenere le attenuanti se avranno pagato i danni patrimoniali e morali ai superstiti e ai famigliari delle vittime. Però la vera partita milionaria si giocherà in sede civile dove a rischiare grosso non saranno solo i 39 dirigenti indagati, ma soprattutto il vecchio datore di lavoro che nel frattempo ha cambiato pelle e nome. Infatti nel 1999, la Ico (Ingegner Camillo Olivetti) spa, guidata dall’allora amministratore delegato Roberto Colaninno, attraverso una spericolata opa, si impossessò di Telecom e ne prese il nome. Così adesso errori e negligenze della vecchia dirigenza, da Carlo De Benedetti a Corrado Passera a Colaninno, potrebbero costare molto cari alla principale azienda italiana delle telecomunicazioni e ai loro clienti. Contattato da Libero, l’ufficio stampa di Telecom ha preferito non rilasciare dichiarazioni ufficiali sulla questione. 

Ma, a quanto ci risulta, in questi giorni a Ivrea l’azienda ha incaricato direttamente alcuni difensori degli indagati. Non basta. Anna Rosa Sapone, referente sul territorio canavese dell’Ufficio affari legali di Telecom, in particolari per i contratti business, dichiara: «Il processo Olivetti? Su questo tema la funzione competente è quella del contenzioso legale di Telecom. Certo, se la questione riguarda ex manager dell’Ico spa si applicano le norme di cui al contratto dirigenti, quindi c’è una manleva e un onere a carico dell’ex datore di lavoro, coerentemente con le norme contrattuali, altro non so». Un modo un po’ fumoso per ammettere che l’azienda telefonica non potrà lavarsene le mani, anche perché la società coinvolta dalla procura di Ivrea, la vecchia Ico spa, oggi si chiama Telecom: «È così, è sufficiente un controllo alla Camera di commercio per averne la conferma», ammette Sapone. Ben sapendo che le parti civili adesso si rivolgeranno al nuovo indirizzo. 

Per esempio lo farà l’avvocato generale dell’Istituto nazionale contro gli infortuni sul lavoro (Inail) Luigi La Peccerella, che con Libero anticipa: «Chiederemo di essere autorizzati a chiamare in giudizio come responsabile civile il datore di lavoro che ha causato il danno, cioè Telecom». Una mossa che è già stata ammessa dal giudice nel processo contro Ottorino Beltrami, amministratore delegato di Olivetti dal 1970 al 1978 (fu il predecessore di De Benedetti). Beltrami venne condannato per omicidio colposo sino al secondo grado di giudizio, ma la sua vicenda non giunse alla sentenza definitiva per la morte dello stesso Beltrami, avvenuta nell’estate del 2013. «Usciremo allo scoperto quando sarà fissata l’udienza preliminare» continua La Peccerella. Prima però all’Inail verificheranno che l’azienda di telecomunicazioni non provi a dribblare le propria «responsabilità civile» scaricando la vecchia Ico «con qualche giochetto societario». Ma perché chiedere conto a Telecom anziché ai manager che quei danni li hanno causati? «Perché non riusciremmo a far pagare certe cifre a dei dirigenti in pensione». Neppure a De Benedetti? «In sede penale i giudici potrebbero chiedere dei sequestri, ma prendersela con le persone fisiche a volte è inutile».

Come dimostra il caso di Stephan Schmidheiny, padrone svizzero della Eternit, proprietario di un sostanzioso patrimonio all’estero, ma non in Italia. Per questo nel processo Olivetti i superstiti e i parenti delle vittime molto probabilmente chiameranno in causa il debitore più abbiente e, senza perdere tempo con le persone fisiche, aggrediranno i beni di Telecom. In questo modo gli indagati la sfangheranno? «Dipende, la compagnia telefonica potrebbe avviare un’azione di rivalsa nei loro confronti e noi comunque faremo valere le nostre pretese anche sugli imputati» conclude La Peccerella. Provare a calcolare a quanto ammonteranno i risarcimenti è in questo momento abbastanza aleatorio.

Il loro valore verrà stabilito «in via equitativa» dai giudici civili e questi prenderanno in considerazione il danno patrimoniale e quello non patrimoniale, che verrà valutato in modo discrezionale dal tribunale. Laura D’Amico, legale di parte civile per conto della Cgil, esperta di processi per malattie professionali, prova a fare una previsione: «Nei casi in cui un lavoratore lascia una vedova e un paio di figli, considerando anche il danno per la sofferenza del morto, che passa in eredità, mediamente il risarcimento ammonta a 500-600 mila euro». In questo procedimento le vittime sono 15, ma altre se ne aggiungeranno con il fasciolo bis (che per ora riguarda una decina di casi), mentre i sindacati hanno raccolto attraverso i loro “sportelli amianto” un’altra trentina di episodi. Numeri che non rendono peregrina l’ipotesi di una cinquantina di risarcimenti che moltiplicati per mezzo milione di euro potrebbero, con stima prudenziale, far schizzare a non meno di 25 milioni di euro la somma degli indennizzi. 

Una prospettiva che non preoccupa D’Amico, tenace avversaria di un certo tipo di imprenditoria: «All’Olivetti non si faceva prevenzione, perché in questo territorio non c’era sensibilità sull’argomento, non vi erano ispezioni e i lavoratori erano tenuti nell’ignoranza e per questo non rivendicavano il loro diritto alla salute. E se nessuno ti controlla o ti chiede risarcimenti, tu puoi pensare solo al profitto. È una gran pacchia. Ecco qual era il capitalismo maturo di quei signori». 

Però i risparmi sulle bonifiche e sulle altre misure di prevenzione rischiano di essere pagati oggi con gli interessi da chi a quel disastro non ha materialmente preso parte. Bruna P., una delle vittime del processo, che con la sua malattia ha condotto alla sbarra Carlo De Benedetti, il fratello Franco, i figli Rodolfo e Marco, Corrado Passera, ma soprattutto Colaninno, l’uomo della scalata a Telecom, ricorda così gli anni ’90 in Olivetti: «Quando toccavamo le pareti rimaneva sulle mani del pulviscolo bianco e quando arrivavo alla mattina dovevo pulire la mia scrivania con uno straccio perché era piena di quella polvere». Dal 1990 in Italia si parlava del pericolo asbesto, ma non in Olivetti. «Avete ricevuto informazioni dall’azienda?» chiedono i pm. «No, assolutamente no» è la risposta della donna. Che ora chiederà a chi l’ha fatta ammalare il giusto risarcimento.

sabato 4 ottobre 2014

"Napolitano fu indagato per tangenti". La vendetta del sindaco cacciato

"Napolitano fu indagato per tangenti". La vendetta del sindaco cacciato


di Alessandro Sallusti 




De Magistris viene sospeso e lancia messaggi. Ricordando le inchieste scomode su Re Giorgio



La notizia non è propriamente inedita, ma se a rilanciarla con forza è un ex pm manettaro nonché sindaco della terza città italiana, l'effetto è assicurato: Giorgio Napolitano fu indagato per tangenti durante la stagione di Mani Pulite. Se la cavò, anche se all'epoca - cosa più unica che rara - nessuno ne seppe nulla perché la sua iscrizione nel registro degli indagati fu secretata e - cosa altrettanto anomala - il segreto resistette alla curiosità di giornalisti e politici.

Un trattamento speciale, insomma, che Luigi De Magistris, fino a ieri sera sindaco di Napoli, ha voluto ricordare forse come primo atto della sua vendetta per la condanna (abuso d'ufficio), e conseguente sospensione dalla carica di primo cittadino, in base alla legge Severino.

Per De Magistris, a Napolitano - e non ai ripetuti e clamorosi svarioni da pm - si devono le sue disgrazie: prima la cacciata dalla magistratura, poi da sindaco. Un complotto, insomma, al quale crede solo lui. Perché Napolitano dovrebbe avercela tanto con lo sciagurato ex magistrato, non è chiaro. Evidente è invece il tentativo di De Magistris di inquinare i pozzi della politica utilizzando informazioni che aveva acquisito vestendo la toga. E questo la dice lunga su chi aveva e ancora oggi ha in mano la nostra giustizia.

In quanto a Napolitano, nulla ci sorprende. All'epoca dei fatti l'attuale Re Giorgio era presidente di quella Camera che si arrese alle toghe. Le quali riuscirono a fare breccia nell'immunità parlamentare ottenendo proprio da lui che le votazioni sulle autorizzazioni all'arresto dei deputati passassero da segrete a palesi. Fu la sua una scelta morale, un favore, uno scambio conveniente? Chi può dirlo. Sta di fatto che Napolitano fu l'unico politico a non finire al gabbio a fronte della confessione di un imprenditore che sosteneva di aver versato 200 milioni di lire alla sua corrente. Non più segreto il voto, segreta l'indagine, segreta pure l'assoluzione. E un bel segreto che resta ancora sullo sfondo: come mai nessun politico del Pci, partito di cui Napolitano era leader, finì nei guai? Forse nel «pizzino» di De Magistris c'è un indizio di risposta.

Berlusconi: "Chiudo Forza Italia e faccio un altro partito"





Berlusconi: "Chiudo Forza Italia e faccio un altro partito"



Silvio Berlusconi starebbe per chiudere Forza Italia. La rifondazione del partito, purtroppo, è stata un fallimento: "Non si è ricreato lo spirito del '94", confida il Cavaliere, e tutti "restano sulle proprie posizioni". I continui maldipancia interni, gli scontri fra le varie anime azzurre e poi, da ultimo, la lite con Raffaele Fitto - "uno che procura solo guai" - hanno davvero logorato l'ex premier. A questo punto si chiede Berlusconi, "cosa me ne faccio di un partito dove non posso difendermi dai contestatori?". "Cosa me ne faccio di un partito pieno di debiti perché i parlamentari non contribuiscono economicamente?".

Predellino ter - La domanda è retorica. Il Cavaliere sa già cosa vuole. Ma l'idea di fondare un nuovo partito, seppure attraente, dipende dalla sua futura ricandidabilità e dalla nuova legge elettorale. Se l'Italicum dovesse contemplare un premio di maggioranza per la lista con più voti, allora Berlusconi potrebbe fare una "lista del presidente", una sorta di "Forza Silvio", che potrebbe includere i fidatissimi attuali dirigenti di Forza Italia e i parlamentari delusi dal Nuovo Centrodestra di Angelino Alfano. Un partito più snello, al passo coi tempi e contenuto nei costi. Un partito che fa quello che dice il capo. 

La smentita - L'indiscrezione sulla chiusura di Forza Italia, viene però smentita da Berlusconi. Che ha emanato un comunicato in cui si dice "sconcertato nel leggere alcune vere e proprie fantasie riportate oggi in alcuni articoli di cosiddetto retroscena". Il Cavaliere sostiene che sono "notizie senza alcun fondamento. E' falso che voglia chiudere Forza Italia". Peraltro, precisa, "dovrebbe essere noto a tutti che i costi di venti anni di battaglie azzurre per la libertà sono stati garantiti da mie fideiussioni, delle quali risponderei dunque personalmente".