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sabato 27 settembre 2014

Tonino contadino, Giggino silurato Rottura totale per la brigata anti-Cav

Che fine ha fatto la brigata anti-Cav




E' in rotta totale la banda anti-Cav. A testimonianza del fatto che Silvio Berlusconi, coi suoi pregi e le sue magagne, ha di fatto tenuto in vita  per anni (mediaticamente e politicamente) personaggi che oggi, con lui in posizione defilata e ormai quasi fuori dai guai giudiziari, hanno assai poca ragione di esistere.

Il primo a finire ai margini è stato Antonio Di Pietro, "dio" con la toga di Manipulite poi riciclatosi in politica come leader dell'Italia dei valori. Oggi, Tonino fa l'agricoltore a Montenero Di Bisaccia, suo paese naatale in Molise. E ieri è tornato a parlare in pubblico dopo lungo tempo. Dove? Ospite di un convegno sul "piano di sviluppo rurale 2014-2020. Quale futuro per l'agricoltura molisana?". Ad Antonio Ingroia, pure lui fu magistrato riciclato in politica, è andata anche peggio: la sua Azione civile ha fallito in tutti gli appuntamenti elettorali cui si è presentata, le politiche 2013 e le europee 2014. Nessun eletto in entrambe le occasioni. Per consolarsi, Ingroia ha ottenuto due incarichi pubblici nella natia Sicilia dall'amico Rosario Crocetta: commissario di "Sicilia e servizi" e commissario della Provincia di Trapani (incarico, quest'ultimo, scaduto lo scorso 30 giugno).

Alla politica sono invece riusciti ad approdare dal mondo dei media due ex "intellettuali giustizialisti" come Barbara Spinelli e Curzio Maltese. La prima aveva dichiarato in campagna elettorale di voler rinunciare all'eventuale seggio in favore del primo dei non eletti, ma ha poi preferito tenersi stretto il posto a Strasburgo. Il secondo, invece, sta facendo il diavolo a quattro per tenersi lo stipendio che riceve a Repubblica accanto al ricco compenso di parlamentare europeo.

Dei tanto celebrati (un tempo) "Popolo viola" e "Girotondi" non si hanno notizie ormai da anni.E forse, chissà, tra un anno si perderanno le tracce (almeno televisive) anche di Michele Santoro, il cui intento di mollare "Servizio pubblico" alla fine della stagione appena iniziata non potrà che uscire rinforzato dai risultati di share della prima puntata, con un misero 5,7% e un milione di telespettatori persi per strada rispetto all'esordio della stagione scorsa. Marco Travaglio, da quando non può più prendersela col Cav, disserta di antimafia e Napolitano con infiniti sermoni sul Fatto. E il flop di Santoro su La7 è anche il suo e del vignettista Vauro. Come lo è di Sabina Guzzanti, idola delle (ex) folle antiberlusconiane e che, lei pure come Travaglio, ha preferito virare la sua verve polemica sul tema della mafia.

Poi c'è il tragicomico caso di Luigi De Magistris, pure lui ex pm buttatosi in politica (ma forse la faceva anche con la toga addosso). Tragico perchè una città con mille problemi come Napoli si trova pure col problema di un sindaco condannato che, verosimilmente, dovrà lasciare l'incarico con l'applicazione della legge Severino. Comico perchè la prima cosa che Giggino ha fatto dopo aver saputo della pena di un anno e tre mesi inflittagli per abuso d'ufficio è stata partire testa bassa all'attacco dei giudici. Ma quello che faceva così non era Berlusconi?

giovedì 25 settembre 2014

Sul babbo indagato di Matteo Renzi si allunga l'ombra di Telekom Serbia

L'ombra di Telekom Serbia nell'inchiesta sul padre di Renzi

di Giacomo Amadori 


L’inchiesta per bancarotta fraudolenta contro Tiziano Renzi si arricchisce ogni giorno di nuovi colpi di scena e da oggi si intreccia clamorosamente con la vicenda Telekom Serbia. Per rendersene conto bisogna concentrarsi su Antonello Gabelli, 51 anni, originario di Alessandria, uno dei tre indagati per il fallimento della Chil post (datato 7 dicembre 2013). Libero lo ha cercato diverse volte negli ultimi mesi. L’ultima domenica scorsa, quando, a sorpresa, siamo stati ricontatti: «Sono Vincenzo Vittorio Zagami, avvocato del Foro di Roma, tessera numero A… e assisto il signor Gabelli. È stato nominato amministratore della Chil post, ma in realtà era una testa di legno.

Chi dava le disposizione, anche dopo la vendita e sino al fallimento della società, era il papà del signor Renzi». L’incipit non è esattamente nel tipico linguaggio felpato dei difensori di fiducia. Ma il prosieguo è persino più spumeggiante: «Il mio cliente è una persona assolutamente impossidente. Per fare il prestanome gli avevano promesso dei soldi che non sono arrivati e ora sarebbe disponibile a rendere una testimonianza scoop in audio e in video perché ha delle carte relative al padre di Renzi. Però, giustamente, vuole qualcosa in cambio. Si deve pagare l’avvocato, visto che tra poco l’arresteranno per bancarotta fraudolenta». L’uomo è esuberante e ci invita a bere un caffè nel pomeriggio a Cap Saint Martin alle porte del Principato di Monaco. Decliniamo l’offerta, ma ci accordiamo per un incontro il giorno successivo ad Alessandria, dove Zagami è residente in un’elegante palazzina nella frazione Valmadonna. Prima di partire cerchiamo su Internet notizie su questo difensore sui generis e scopriamo diverse cose curiose.

Per esempio che è iscritto al foro di Roma solo dal 2012 come «avvocato comunitario stabilito», essendo stato abilitato a esercitare la professione in Francia e in Spagna. Pugliese e di ottima famiglia, è titolare dello studio Zagami e associati con sedi a Molfetta, Roma e Milano. Marco Travaglio nel suo libro La scomparsa dei fatti ricorda la sua storia e come a un certo punto sia diventato il “super-testimone” della vicenda Telekom Serbia, con un’intervista a Paolo Guzzanti, vicedirettore del Giornale e senatore di Forza Italia: «Tal dottor Favaro si descrive come uno “dei due italiani che erano sul volo da Atene a Belgrado per portare i famosi 1.500 miliardi (in sacchi di iuta ndr) per la conclusione dell’affare”. Favaro sostiene pure di aver assistito alla consegna di tangenti e di possederne addirittura una ricevuta. L’uomo in realtà si è presentato a Guzzanti, col suo vero nome, Vincenzo Vittorio Zagami, sedicente collaboratore del Sismi. Basterebbe un semplice controllo per scoprire che si tratta di un volgare truffatore, pluripregiudicato, con varie condanne alle spalle».

Il 13 maggio 2002 viene arrestato dall’Interpol nella sua casa di Cap Saint Martin e, secondo Travaglio, «la bufala viene smascherata». Adesso, 12 anni dopo, Zagami difende Gabelli e chiede soldi per incastrare babbo Renzi. Quanti soldi? Non molti: «Dodici mensilità da neanche mille euro l’una. Il mio assistito deve campare». Lunedì incontriamo la strana coppia in un bar di Piazza della Libertà ad Alessandria. L’ex amministratore della Chil post rimane praticamente muto per tutta la durata della riunione. Capelli scuri, polo bordeaux, corpulento e un po’ claudicante, Gabelli ha il volto tirato. Il suo avvocato è invece un fuoco d’artificio. Rolex e gemelli d’oro, scarpe di Gucci, esibisce i tesserini professionali di tre diverse nazioni. Quindi squadra il cronista: «Per combattere le pellacce ci vogliono le pellacce. Non ho paura di niente, ho fatto il carcere, la latitanza». Incuriositi, gli chiediamo lumi sulle sue disavventure giudiziarie, ma a questo punto Zagami ci accusa di «andare in cerca di sensazionalismo»: «Ho un passato molto particolare, ma che cosa interessano fatti di vent’anni fa senza nessuna attualità? Non sono io indagato a Genova». Poi assicura di essere stato prosciolto con formula piena per Telekom Serbia e di aver girato per quasi tutte le prigioni italiane per colpa delle false accuse che gli sono piovute addosso. Zagami è certo che Gabelli sia stato messo in mezzo e ci ripropone l’intervista a pagamento: «Noi non stiamo violando nessun segreto istruttorio perché non siamo mai stati ascoltati dai pm. La procura, al di là del semplice avviso di garanzia, non ha fatto neanche un’audizione. Il fascicolo è completamente vuoto».

In realtà a maggio il curatore fallimentare Maurizio Civardi ha scritto ai pm che Gabelli «si è reso indisponibile a un incontro e che a tutt’oggi non ha neppure riscontrato le richieste di chiarimento sottoposte dal curatore». Per Zagami l’inchiesta non può rimanere in Liguria: «Il giorno che il magistrato ci chiamerà, chiederò lo spostamento del processo, la competenza è di Firenze, dove si sono svolte le compravendite, o meglio ancora del tribunale dei ministri, infatti l’unico dirigente della società che è fallita era Matteo Renzi». Zagami punta il dito sulle due cessioni fatte da Tiziano Renzi nell’ottobre del 2010: la prima in cambio di 3.800 euro alla moglie Laura Bovoli e la seconda, sei giorni dopo, per 2 mila euro al settancinquenne sedicente prestanome (e non indagato) Gian Franco Massone. In tutto 5.800 euro per una società con 60.400 euro di valore nominale e un valore della produzione di 4,5 milioni nel 2009. Per l’avvocato ci troveremmo di fronte a una good company (venduta a Bovoli) e a una bad company affidata a Gabelli che nel dicembre 2010 ha firmato il bilancio con quelle operazioni finanziarie oggi sotto la lente della procura.

«Hanno venduto una scatola vuota, dopo averla privata di tutti i contratti commerciali» insiste Zagami. Su Massone viene scaricato anche un mutuo da 497 mila euro garantito sino a quel giorno dalla mamma di Matteo Renzi. Nell’atto notarile del 14 ottobre, un documento chiave per la procura genovese, si legge che Massone «si obbliga a liberare la signora Bovoli Laura dalla fideiussione prestata a favore della Banca di credito cooperativo di Pontassieve entro 30 giorni». La banca all’epoca aveva nel consiglio di amministrazione uno dei fedelissimi dell’attuale premier, l’ex boy scout Matteo Spanò, oggi presidente dello stesso istituto di credito. Il legale di Gabelli se la prende pure con il notaio che ha firmato i due atti, Claudio Barnini, il professionista di fiducia dei Renzi, colpevole di aver avallato le compravendite senza precisare le modalità di pagamento. «Perché la società viene ceduta senza un dimostrato passaggio di soldi? Si tratta di cessioni simulate? In casi come questo il notaio ha l’obbligo, per le norme antiriciclaggio, di fare una segnalazione». La chiacchierata termina qua. Il legale ribadisce: «Gabelli non rilascia nessuna intervista se non dietro un contributo per le spese che dovrà affrontare». Replichiamo che non siamo disponibili a versare alcunché. «E allora di che cosa parliamo? C’è altra gente che sta venendo con gli assegni in mano. La saluto».

Beppe Grillo in ginocchio da Bersani: "Insieme contro Renzi". Poi minaccia...

Beppe Grillo chiama Pier Luigi Bersani: "Insieme per sbarazzarci di Matteo Renzi"




Torna a farsi sentire Beppe Grillo. E torna a farsi sentire con la più improbabile delle piroette: chiama per un'alleanza Pier Luigi Bersani, lo stesso Bersani che sbertucciò rifiutando ogni alleanza dopo le elezioni politiche della non-vittoria dell'uomo da Bettola. Nel mirino del grande capo Beppe c'è la riforma del lavoro e, fa sapere, i Cinque Stelle sono disposti a un'intesa con la minoranza del Pd pur di mandare a casa Matteo Renzi e il suo governo.

Gli obiettivi - Al solito, l'appello viaggia sul blog, dove su un post firmato da Aldo Giannulli si legge: "Lo scontro che si sta profilando impone che abbiamo tutti molta generosità, mettendo da parte recriminazioni pur giuste per realizzare la massima efficacia dell'azione da cui non ci attendiamo solo il ritiro di questa infame 'riforma', quanto l'occasione per mandare definitivamente a casa Renzi: con l'azione parlamentare e con l'azione di piazza, con gli scioperi, spingendo la minoranza Pd a trarre le dovute conseguenze di quanto accade".

"Compagni" - Un appello davvero esplicito, dunque. E ancora: "Renzi sta riuscendo dove non sono riusciti Monti e Berlusconi, lui, segretario del Pd, sta trattando la Cgil come uno straccio per la polvere: compagni del Pd cosa aspettate ad occupare le sedi e far sentire la vostra voce? O siete diventati tutti democristiani?". Beppe Grillo, stella (già) cadente dell'antipolitica, dunque, pur di restare a galla tende la mano allo "zombie" Bersani, all'ex leader di quel partito ("il Pd-L"), che al pari di tutti gli altri partiti, ha sempre disprezzato. Fino ad oggi.

Yara Gambirasio, la svolta definitiva? Quella prova che "incastra" Bossetti

Yara, Massimo Bossetti andò nel campo dove fu ritrovato il cadavere




Una prova che rischia di compromettere la posizione di Massimo Giuseppe Bossetti, l'unico sospettato per l'omicidio di Yara Gambirasio. Due settimane dopo il delitto, infatti, andò nel campo dove fu ritrovato il cadavere della ragazzina di Brembate Sopra. La prova sta in una fattura rintracciata dai carabinieri del Ros durante l'analisi della contabilità del muratore. Secondo quanto rivelato dal Corriere della Sera, la versione fornita da Bossetti ai pm - secondo la quale sarebbe stato in un cantiere nei pressi del campo per portare della sabbia - sarebbe stata smentita dalle verifiche. Quel 9 dicembre, Bossetti, non andò a lavorare; nella bolla allegata alla fattura, tra l'altro, sarebbe indicato un quantitativo di un metro cubo di sabbia.

"Avevo 13 anni, mi toccava e mi filmava" La testimonianza contro l'arcivescovo

Vaticano, la testimonianza sul nunzio apostolico arrestato: "In spiaggia mi toccava"




E' stato arrestato in Vaticano l'ex nunzio a Santo Domingo, Josef Wesolowski, riconosciuto colpevole di abusi nei confronti di minori e condannato dalla Congregazione della Dottrina della Fede alla dimissione dallo stato clericale. L'arresto, reso noto dal TgLa7, sarebbe stato realizzato con il consenso di Papa Francesco. Wesolowski aveva fatto recentemente appello alla sentenza canonica di primo grado.

Le parole del portavoce - L'arresto dell'ex nunzio Wesolowski "è conseguente alla volontà espressa del Papa, affinché un caso così grave e delicato venga affrontato senza ritardi, con il giusto e necessario rigore, con assunzione piena di responsabilità da parte delle istituzioni che fanno capo alla Santa Sede", ha precisato portavoce della Santa Sede padre Federico Lombardi. Wesolowski sarà processato in base alle norme in vigore prima della riforma penale del 2013, e rischia una pena tra i 6 e i 7 anni di carcere più eventuali aggravanti.

"Pericolo di fuga" - La procedura istruttoria sul caso dell’ex nunzio - continua padre Lombardi - "richiederà alcuni mesi prima dell’inizio del processo", che potrebbe quindi aprirsi negli "ultimi mesi di quest’anno" o "i primi del prossimo anno". Dopo l’arresto il promotore di giustizia, Gian Piero Milano, "compiute le indagini ulteriori che riterrà necessarie e gli interrogatori opportuni dell’imputato assistito dal suo avvocato, potrà formulare al Tribunale la richiesta di rinvio a giudizio". Il provvedimento degli arresti domiciliari, "con la conseguente limitazione dei contatti, intende evidentemente evitare la possibilità dell’allontanarsi dell’imputato e il possibile inquinamento delle prove".

La testimonianza shock- Alla fine di agosto 2014 il New York Times aveva pubblicato un’inchiesta in cui ha ricostruito con testimonianze dirette di minorenni quali erano le abitudini dell’ex arcivescovo: racconti pieni di dettagli raccapriccianti (rapporti sessuali addirittura “comprati” in cambio di medicine). Ecco invece la testimonianza di una delle vittime dell'ex nunzio a Santo Domingo, Josef Wesolowski, intervistato dalla giornalista Nuria Piera: "Avevo 13 anni, ci siamo conosciuti in spiaggia. Mi ha salutato mentre facevo il bagno, poi ci siamo parlati. Mi ha detto di chiamarlo Giuseppe, non sapevo fosse un sacerdote. Mi ha toccato. Poi mi ha chiesto di toccarmi, mentre lui mi filmava. Mi ha dato mille pesos (circa 17 euro, ndr). L'ho rivisto 2-3 volte, so anche di altri bambini che lo hanno incontrato".

Prendi subito metà della liquidazione: busta paga, rivoluzione in arrivo

Metà liquidazione in busta paga: l'idea del governo




Possibile rivoluzione in busta paga, che potrebbe accogliere il 50% del Tfr, mentre l'altra metà dell'accantonamento finirebbe alle imprese. Per un anno almeno, possibilmente anche per tue o tre, cominciando dai dipendenti del settore privato. Il piano del governo viene anticipato da Il Sole 24 Ore: una mossa per provare a rilanciare i consumi e sostenere l'attività produttiva dopo il flop degli 80 euro e del taglio Irap. Il premier, insomma, ci vuole riprovare, tentando di aumentare il salario dei lavoratori dipendenti grazie al sostanziale anticipo della liquidazione.

Decide il dipendente - Secondo quanto anticipato dal quotidiano economico, parte della quota del Tfr "maturando" e accantonata ogni mese dal lavoratore potrebbe essere smistata in busta paga, magari con un'unica soluzione annuale. Il Tfr, dunque, non arriverebbe più al termine dell'esperienza lavorativa. La scelta, comunque, spetterebbe al dipendente. Il governo punterebbe a varare il provvedimento il prossimo 10 ottobre (come detto, è prevista la possibilità per le imprese di mantenere una fetta pari al 50% delle liquidazioni).

Compensazioni aziendali - Resta però il nodo delle compensazioni aziendali, ancora da risolvere. Tra le opzioni quella di mantenere il meccanismo fiscale agevolato oggi previsto per il trasferimento del Tfr ai fondi pensione. Per evitare problemi di liquidità, inoltre, verrebbe esclusa la possibilità di prevedere un accesso al credito agevolato per il flusso di Tfr da trasferire in busta paga o, alternativamente, un dispositivo creato ad hoc con il coinvolgimento della Cassa depositi e prestiti.

Potere d'acquisto e Iva - Altro tema delicato, e da risolvere, è la copertura dell'intero intervento, in particolare per quel che concerne l'accelerazione dell'esborso di cassa al quale dovrebbe far fronte lo Stato, con un'ovvia ricaduta sull'indebitamento. Da affrontare, inoltre, la probabile esclusione degli statali dal provvedimento, almeno in prima battuta, nonché il prelievo fiscale sulle quote di Tfr erogate con lo stipendio con quella che si configurerebbe come una sorta di "nuova quattordicesima". L'obiettivo, come detto, è far aumentare consumi e potere d'acquisto delle famiglie. Lo Stato recupererebbe parte dell'esborso con le ipotetiche maggiori spese e la conseguente crescita dell'incasso Iva.

I precedenti tentativi - In verità, l'idea di trasferire parte del Tfr in busta paga, non è nuova. Anche su questo punto Matteo Renzi mostra di non disdegnare affatto le politiche proposte in passato dai governi Berlusconi. Seppur in forme diverse, il medesimo principio fu proposto da Giulio Tremonti. Nel 2011, invece, fu il turno della Lega Nord, mentre nel marzo dello scorso anno la proposta fu avanzata dal sindacalista Fiom Maurizio Landini proprio a Renzi. Anche Corrado Passera, nel programma della sua Italia Unica, ha inserito il trasferimento del Tfr maturato direttamente in bsuta paga.

Punito il suo "metodo patacca" De Magistris condannato a un anno e tre mesi di carcere

Why Not, De Magistris condannato a un anno e tre mesi




Un anno e tre mesi di reclusione ciascuno, con sospensione condizionale della pena e non menzione sul casellario giudiziale: è la condanna che la decima sezione penale del tribunale di Roma ha inflitto all’ex pm di Catanzaro, Luigi de Magistris, attuale sindaco di Napoli, e al consulente informatico Gioacchino Genchi, accusati di concorso in abuso d’ufficio per aver acquisito illegittimamente, nell’ambito dell’inchiesta calabrese ’Why not’, i tabulati telefonici di alcuni parlamentari senza la necessaria autorizzazione delle Camere di appartenenza.

I due imputati, cui sono state concesse le attenuanti generiche e applicata l’interdizione temporanea dai pubblici uffici per un anno (pena accessoria che rientra nella sospensione condizionale), sono stati condannati al risarcimento dei danni morali e materiali da liquidarsi in separata sede, salvo una provvisionale di 20mila euro, nei confronti dei parlamentari Francesco Rutelli, Giancarlo Pittelli, Romano Prodi, Clemente Mastella, Antonio Gentile, Sandro Gozzi e, per il solo Genchi, Domenico Minniti. Il 23 maggio scorso il pm Roberto Felici aveva concluso la requisitoria sollecitando l’assoluzione per l’ex pm di Catanzaro e la condanna a un anno e mezzo di reclusione per Genchi.

L’accusa di abuso d’ufficio era stata formulata perchè  i tabulati riguardanti gli uomini politici appartenenti al  centrodestra e al centrosinistra erano stati acquisiti al fascicolo  dell’inchiesta senza aver preventivamente richiesto ai rami del  Parlamento a cui appartenevano i politici in questione l’autorizzazione ad acquisirli. Il processo conclude una lunga vicenda giudiziaria che era cominciata nel 2009. La decisione del Tribunale è stata commentata favorevolmente dagli  avvocati Nicola e Titta Madia i quali ha assistito nel procedimento  Francesco Rutelli e Clemente Mastella. "La sentenza emessa oggi dal  Tribunale di Roma -hanno sottolineato i penalisti- rende piena  giustizia agli uomini politici tra i quali Francesco Rutelli e  Clemente Mastella. La grande violazione delle prerogative dei  parlamentari in questione determinò una violentissima campagna di  stampa contro il governo all’epoca in carica".

Da parte sua, De Magistris affida a Facebook la replica alla condanna, che definisce "un errore giudiziario. La mia vita è sconvolta". E annuncia ricorso in appello: "Sono profondamente addolorato per aver ricevuto una condanna per fatti insussistenti. Sono stato condannato per avere acquisito tabulati di alcuni parlamentari, pur non essendoci alcuna prova che potessi sapere che si trattasse di utenze a loro riconducibili".