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venerdì 4 luglio 2014

I frondisti azzurri: Silvio non pensa più al partito

I frondisti azzurri: Silvio non pensa più al partito





Nel centrodestra, ma al di fuori di Forza Italia, c'è chi come Guido Crosetto definisce Silvio Berlusconi "presidente di una sezione del Pd". Reazioni così smarcate, ovviamente, tra gli azzurri non si registrano. Ma l'incontro-caffè di due ore ieri mattina tra il leader azzurro e il premier-segretario del Pd Matteo Renzi, ha sollevato più di qualche malumore soprattutto tra i "frondisti" di Fi, cioè coloro che in più occasioni hanno preso le distanze dallo schema di riforme uscito dal "Patto del Nazareno" e coloro che invece ormai da settimane chiedono al cavaliere di tagliare i ponti con Renzi.

Di fatto, nell'incontro di stamattina a Palazzo Chigi, è stato ribadito un accordo nel quale non ci sono bandierine piantate da Forza Italia: non solo non c’è il presidenzialismo, o il semi, ma al posto dell’elezione diretta c’è una specie di “elezione di terzo grado”, come la chiamano i deputati azzurri che hanno dimestichezza con la materia: i cittadini scelgono i consiglieri regionali e i sindaci, i quali a loro volta indicano i senatori, che poi eleggono il capo dello Stato. E poi l’intero impianto del nuovo Senato risulta un rospo indigeribile per un partito come Forza Italia, considerata l’attuale geografia elettorale.

Nell'incontro del pomeriggio coi gruppi parlamentari azzurri a Montecitorio, l'atmosfera si è riscaldata non poco. Con le due fazioni pro e contro renzi divise sul sostegno al cavaliere. Toni concitati, urla. Tra gli iscritti a parlare, avrebbe espresso il suo dissenso il senatore Augusto Minzolini, che in questi giorni sta guidando la 'fronda' contro il patto del Nazareno a difesa del Senato elettivo. Sulla stessa linea dell'ex direttore del Tg1, Cinzia Bonfrisco e Giacomo Caliendo. "Attendiamo un tuo segnale da leader dei moderati, così non abbiamo un'identità" avrebbe detto in particolare Bonfrisco.  “Se Forza Italia diventa una corrente di Renzi, come sta accadendo, allora liberi tutti” è il commento di uno dei frondisti. Il sospetto che sta sempre più prendendo piede tra i malpancisti di piazza San Lorenzo in Lucina è che Berlusconi stia negoziando tutta la questione delle riforme con un occhio più alla sua situazione personale e alle sue aziende e meno al partito.Un sospetto che le parole pronunciate giusto ieri da Piersilvio Berlusconi, con l'endorsement per Renzi nel corso della presentazione dei palinsesti Mediaset, non possono che rafforzare. Senza dimenticare che poche settimane fa Ennio Doris, presentando il suo libro aveva già detto “io voto per Silvio ma tifo per Renzi”. E in precedenza, al premier erano arrivate lodi anche dal numero uno di Mediaset Fedele Confalonieri.

Dopo tre ore di confronto serrato, la riunione si scioglie senza un voto. "Ho ascoltato le diverse posizioni all'interno del partito e mi riservo una decisione". Ma tra i frondisti c'è chi è sicuro che un voto sulla posizione da prendere con Renzi avrebbe sancito una profondissima divisione e avrebbe messo in grossa difficoltà Berlusconi. E c'è chi arriva a minacciare il boicottaggio dei lavori parlamentari. Tutto rinviato a martedì, quando si terrà la replica.

A Forza Italia servono 7 milioni e Berlusconi non vuole più pagare. Gli onorevoli azzurri rischiano, ma loro...

Forza Italia, conti in rosso: Silvio Berlusconi vuole chiedere il Tfr ai deputati azzurri


di Salvatore Dama



No taxation without representation. Ma Silvio Berlusconi in Forza Italia ribalta il principio: paga e poi parla. Finalmente dopo anni il Cavaliere ha trovato un modo per domare i dissidenti interni. Puntare dritto al loro portafoglio. L’ex premier è pronto a dare credito ai chi gli chiede più dibattito nel partito. Purché questi salvino il partito dai creditori. Servono 7 milioni di euro per fare fronte alle spese correnti di Piazza San Lorenzo in lucina. E Berlusconi non può e non vuole metterceli lui. Sicchè sono state studiate un po’ di ipotesi per spremere i parlamentari azzurri. La prima è quella di costringere deputati e senatori a versare la propria liquidazione da parlamentare nelle casse del partito. Si tratterebbe di una tassa - secondo l’Agenzia Italia - di 50mila euro a testa. Su per giù. Il forziere forzista rifiaterebbe un po’. Se non fosse che i parlamentari sono già in rivolta. Minacciano di andarsene al gruppo misto, piuttosto di rinunciare al proprio tfr. L’altra idea è quella di chiedere a deputati e senatori una fidejussione bancaria a garanzia di un nuovo prestito necessario per coprire il disavanzo azzurro. In passato ci pensava Berlusconi. È grazie a lui e alle sue garanzie, se Forza Italia e poi il Popolo delle libertà si sono potuti esporre con le banche per circa 87 milioni di euro. Ma ora, in virtù della nuova legge che abolisce il finanziamento dei partiti, i contributi pubblici saranno sempre di meno, fino a estinguersi del tutto. Mentre quelli privati sono sottoposti a un tetto di massimo 10mila euro. La terza via da percorrere è quella di chiamare la base a un sforzo economico per sostenere il proprio partito del cuore. Aprendo una stagione congressuale che garantisca un flusso di soldi dal tesseramento. 





Alfano alla fine si arrende (ancora): "Sì alle unioni civili anche per i gay"

Alfano: "Sì alle unioni civili anche per i gay"



«Non si tocchi la famiglia naturale, composta da uomo e donna, come recita la Costituzione», ma «non abbiamo difficoltà a ragionare, nell’ambito del codice civile, di un tema che esiste ed è la tutela delle persone che convivono, anche gay». Così, intervistato da Repubblica, il ministro dell’Interno e leader di Ncd Angelino Alfano. «Noi siamo pronti ad un’accelerazione su questo genere di tutele - ha spiegato - la nostra è un’apertura significativa. Tuttavia ci sono tre paletti e una questione politica»: la soluzione deve essere «pragmatica e non ideologica», non si può estendere per «via giurisprudenziale», il matrimonio e l’adozione. «In nessun caso - ha precisato Alfano - si deve far passare l’idea che si sta lavorando ad un superamento della famiglia così come la prevede la Costituzione». Il leader di Ncd ha ribadito, quindi, il suo «no», «ai matrimoni gay, no alle adozioni gay o all’utero in affitto, no alla reversibilità delle pensioni che oggi costa più di 40 miliardi all’anno ed è la più costosa in Europa».

Guerra nucleare tra Feltri e Sallusti: botte da orbi sul corpo di Boffo. Veleni e malizie, e lunedì può succedere di tutto...

Caso Boffo, Alessandro Sallusti contro Vittorio Feltri: "Ricostruzione senza fondamento". Replica al veleno



Una ricostruzione "senza alcun fondamento". Il direttore del Giornale Alessandro Sallusti sceglie Dagospia per replicare alle accuse mosse da Vittorio Feltri sulle pagine dell'Espresso, in edicola venerdì 4 luglio. Il fondatore di Libero aveva ricostruito il caso Boffo e la genesi della "macchina del fango", ovvero l'articolo del Giornale del 28 agosto 2009 accusò l'allora direttore dell'Avvenire Dino Boffo di essere un "omosessuale attenzionato dalla polizia", riportando una informativa poi risultata falsa. "Fu Alessandro Sallusti a dirmi che la fonte della velina su Dino Boffo era il cardinale Tarcisio Bertone, che l'aveva data a Luigi Bisignani e Daniela Santanché. Poi era arrivata a Sallusti. E' questo quello che ho raccontato ai magistrati. Davanti ai pm si deve dire la verità".

La replica di Sallusti - "Come ho già avuto modo di spiegare ai magistrati della Procura di Napoli - ha commentato Sallusti -, non ha alcun fondamento la ricostruzione fatta da Vittorio Feltri sull'origine dello scoop della condanna di Dino Boffo per molestie telefoniche a sfondo sessuale. I nomi citati da Feltri non hanno nulla a che fare con quella vicenda, ne avrei potuto farli, quelli o altri, a Feltri o a chiunque in quanto avrei violato il dovere alla riservatezza delle fonti che è baluardo inviolabile del nostro mestiere". "Durante la mia deposizione a Napoli - prosegue Sallusti su Dagospia - ho avuto la netta impressione che i magistrati fossero più stupiti e allibiti di me delle parole di Feltri. Prova che non hanno neppure ritenuto di allegare il verbale agli atti del processo in corso sulla fuga di notizie, tanto quella ricostruzione risultava confusa, fantasiosa e senza alcun riscontro".

Feltri, veleno nella coda - Finita qui? No, perché Feltri ribatte scrivendo a sua volta a Dagospia. Il fondatore di Libero ribadisce la versione consegnata al pm: "Chiunque può immaginare che se non avessi avuto ampie rassicurazioni da Alessandro Sallusti circa la attendibilità della fonte (Santanchè , Bisignani e Bertone) delle notizie su Boffo, mai e poi mai ne avrei autorizzato la pubblicazione". "Nonostante ciò - continua -, raccomandai al condirettore Sallusti di effettuare le opportune e prudenziali verifiche sulla esattezza delle notizie stesse, e lui dopo alcune ore mi informò che tali verifiche erano state eseguite e che pertanto si poteva procedere". A quel punto, visto che la documentazione risultò parzialmente inesatta, "io venni sospeso dall'Ordine tre mesi e dovetti rinunciare alla direzione del Giornale. Al mio posto guarda caso subentrò Sallusti". Primo carico di veleno, che arriva anche per la Pitonessa: "Nel frattempo la signora Santanchè mi disse che il card. Bertone mi avrebbe invitato in Vaticano per ringraziarmi di aver pubblicato la vicenda Boffo. Invito che non ho mai ricevuto". Appuntamento a lunedì prossimo, quando Feltri rientrerà dalle ferie e siederà di nuovo sulla poltrona del suo studio nella redazione milanese del quotidiano di via Negri. A cinque metri di distanza da lui, per la cronaca, c'è l'ufficio di Sallusti. Può succedere di tutto.

Dopo 12 anni Floris lascia la Rai e va a La7 Alla tv di Cairo guadagnerà il doppio

Il conduttore saluta Ballarò: con Cairo guadagnerà 4 milioni di euro in tre anni


Sembrava che viale Mazzini fosse disposta a stendere i tappeti rossi, pur di tenersi in casa Giovanni Floris. E invece no. Dopo dodici anni di Ballarò, il conduttore dice addio alla Rai e fa armi e bagagli con destinazione La7. Ha così termine quello che era diventato, nelle ultime settimane, un vero e proprio tormentone: Floris che, per restare alla tv di Stato, chiedeva oltre al solito appuntamento settimanale, una striscia quotidiana sulla rete ammiraglia; Floris che chiede di allungare Ballarò fino a mezzanotte; Floris che chiede più soldi per restare. Ma la separazione era divenuta la strada più probabile dopo la lite in diretta durante l'ultima intervista al premier Matteo Renzi. Un battibecco legato soprattutto alla spending review in viale Mazzini. E dal prossimo autunno il conduttore sarà sugli schermi de La7, con uno stipendio di 4 milioni di euro in tre anni. Il servizio pubblico gli aveva offerto 1,8 milioni.

giovedì 3 luglio 2014

Su Twitter Raitre si spacca sui gay. "Che schifo il Pride".E Andrea Vianello: "Inqualificabile". Volano insulti

Rai, polemica sui gay. Danilo Leonardi: "Che schifo il Pride". Andrea Vianello: "Inqualificabile". Volano insulti



 "Opinioni inqualificabili, le disapprovo totalmente". A parlare è Andrea Vianello, giornalista e direttore di Raitre, che così ha commentato i tweet di Danilo Leonardi, produttore esecutivo di Correva l'anno, programma storico-culturale della terza rete. La colpa di Leonardi è stata quella di aver espresso, a volte con passaggi non educatissimi, opinioni sia sui pedofili ("Fanno tutti schifo" e "la stragrande maggioranza sono gay") e il Gay Pride ("Che schifo Palermo invasa dall'onda del Pride, meglio il califfato che la coppia Crocetta-Orlando"). 

Insulti e polemiche - Tempo qualche ora e sul profilo Twitter di Leonardi piovono insulti e lui reagisce così: "Una valanga di simpatici gay si è offesa perché ho detto che i gay pride fanno schifo. Poi hanno minacciato denunce e anatemi. # poverini". Vianello, sempre su Twitter si dissocia: "Quello che @laudan62 scrive qui sono sue opinioni che nulla hanno a che fare con la Rai". Oggi, dopo un paio di giorni di veleni, Leonardi si è cancellato da Twitter, per la gioia dei critici. Solo Mario Adinolfi, ex parlamentare Pd, si era espresso a suo favore: "@andreavianel @laudan62 Solidarietà a Danilo, oggetto di insulti vergognosi e di un'aggressione insensata per aver espresso un'opinione".

Il Fisco sbaglia una volta su due: ecco quando conviene il ricorso

Il Fisco sbaglia una volta su due: nella metà dei ricorsi vince il contribuente



Anche se la burocrazia non aiuta, gli avvocati costano tanto e si perde un sacco di tempo, quando il Fisco manda a chiamare un'impresa per contestargli qualcosa, conviene fare ricorso. Lo dimostrano i numeri del ministero dell’Economia pubblicati da Repubblica: solo nei primi tre mesi di quest’anno si sono conclusi con un esito completamente favorevole ai contribuenti dei contenziosi tributari per un valore di 3,6 miliardi. Una somma maggiore rispetto a quella per la quale la vittoria in tribunale è andata agli uffici dello Stato, che è di 3,5 miliardi. In pratica per oltre metà degli importi è il contribuente a vincere.

250mila ricorsi - Ovviamente quando è trascinato nella lite fiscale, l’imprenditore deve combattere con tribunali e parcelle degli avvocati per 865 giorni e per questo spesso preferisce non perdere tempo e denaro e pagare. L'anno scorso, però, sono stati presentati più di 250 mila ricorsi fiscali per un totale di 35 miliardi di tasse reclamate dallo Stato. In questo momento, le cause di natura tributaria aperte in Italia sono oltre 650 mila: un’impressionante drenaggio di risorse, di tempo e denaro dalla produzione alle dispute su conti bancari, fatture e cartelle esattoriali.

I costi - Presentare un ricorso, poi, non è sia così semplice. Per fare causa allo Stato, spiega Federico Fubini, su un contenzioso fiscale fino a pochi anni fa si doveva pagare una tassa di circa 150 euro, che ora è diventata un «contributo unificato» da 4.500 euro. Non solo. Come spiega Repubblica negli ultimi anni, fin da quando Giulio Tremonti era ministro dell’Economia, le agenzie dello Stato si sono dotate di strumenti di potere assoluto. Oggi è possibile reclamare versamenti al fisco sulla base di presunzioni astratte: la Guardia di Finanza o l’Agenzia delle Entrate, a sorpresa, possono chiedere a un’azienda di giustificare tutti i movimenti bancari di molti anni prima entro due settimane e, se mancano le carte, mandare subito una cartella esattoriale. Se l’imprenditore è in regola, potrà poi vincere il contenzioso all’ultimo grado di giudizio in Cassazione: ma intanto avrà pagato, sostenuto le spese legali, e riavrà indietro il proprio danaro in media dopo dieci anni. Non sempre le regole sono simmetriche. Quando è l’ufficio pubblico a vincere la causa in tribunale, ha diritto a un terzo della somma in gioco subito, a un terzo dopo il primo grado e al saldo in appello. Al contrario, l’imprenditore inizierà ad essere rimborsato solo dopo aver vinto in Cassazione.

Imprese chiuse - Infine c’è poi una norma, introdotta sotto Tremonti, che continua a provocare la chiusura di un gran numero di imprese. Lo Stato, ricorda Repubblica, può imporre un sequestro preventivo dei beni dell’impresa anche se presume l’evasione senza indizi specifici e vi aggiunge un’ipotesi di reato penale. Basta una notifica della Guardia di Finanza o dell’Agenzia delle Entrate a una Procura. In quel caso scattano i sigilli sull’azienda - l’imprenditore è già un presunto colpevole e subito le banche ritirano i finanziamenti perché mancano le garanzie. La società di conseguenza chiude i battenti, licenzia e non produce più un solo euro di tasse negli anni seguenti: un’iniziativa dello Stato che mirava a far emergere del gettito fiscale, finisce per inaridirlo e distruggere posti di lavoro.