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domenica 3 aprile 2016

Spunta l'ultimo balzello di Renzi Una tassa per andare in pensione

Pensione, il governo pensa ad una tassa per chi vuole andarci prima


di Antonio Castro


Tamburi di guerra sul fronte pensioni. Mentre i sindacati si ricompattano per affrontare (in trincea) la stagione della guerra campale di trattativa (domani la prima manifestazione unitaria di Cgil, Cils e Uil per scardinare la Fornero), il governo getta fiori sul campo di battaglia. Il ministero del Welfare Giuliano Poletti, rassicura, tranquillizza e promette: nella legge di Stabilità 2017 ci saranno "elementi di flessibilità". Detta così non somiglia neppure vagamente ad una rassicurazione.

Già nell' ottobre scorso Poletti & Co promettevano interventi in materia. Interventi che si sono ridotti alla riproposizione dell' Opzione Donna (paghi fino al 30% della tua futura pensione per andartene dai nipotini), oppure il part-time per lasciare progressivamente il posto. Strumento dai dubbi benefici e dagli oneri ancora tutti da soppesare. Della promessa flessibilità neppure l' ombra: solo promesse e tante chiacchiere.

Ora si sta affastellando l' idea che per andare in pensione, in futuro, l' unico modo per il lavoratore sia quello di pagare qualcosa (in maggiori contributi da versare o in minori assegni da percepire). L' ultima ideona (partorita dal vulcanico Tito Boeri), è di tagliarsi l' assegno del 3% l' anno per anticipare di 3 anni l' ingresso a riposo. Praticamente un biglietto d' ingresso assai oneroso e non tanto diverso dalla formula Damiano (2% in meno l' anno per accelerare il pensionamento), già bocciato dal governo e dalla Ragioneria.

Tirando le somme: il governo il Pil proprio non riesce a farlo crescere, gli occupati diminuiscono invece di reagire al doping degli incentivi, e quindi l' unica ricetta taumaturgica resta: Vuoi la pensione? Paga (e caro) in contanti subito o a comode rate (ipotesi già abortita: si chiama prestito pensionistico).

Di certo né Renzi, né questa variegata maggioranza, può permettersi di arrivare al 2017 (anno di vigilia delle elezioni sempre che un terremoto non mandi all' aria i piani), senza un piano d' emergenza pensionistico. Quantomeno la parvenza di una soluzione.

Non sarà la riforma complessiva della Fornero che invocano, con il piedediporco giuridico, i sindacati. Lo sanno pure Camusso, Barbagallo e Furlan: l' indigeribile Fornero, per quanto mal costruita e ritoccata (le 6 salvaguardie hanno sgranocchiato già 11 miliardi di risparmi e non è finita), ha consentito risparmi complessivi per oltre 80 miliardi (fino al 2021). Una garanzia che, ai tempi del terremoto Monti, è stata sventolata a Bruxelles come garanzia finanziaria di stabilità del Paese. Qualcuno magari dimentica che lo Spread a 500 punti base sul Bund tedesco stava per imprimere il timbro junk (spazzatura), sugli oltre 2mila miliardi di titoli pubblici.

Non a caso ieri la Corte dei Conti ha alzato la manina e puntualizzato che le riforme (non solo quella Fornero ma tutte quelle succedutesi dal 2007 in poi), hanno «consentito risparmi per 30 miliardi l' anno per un periodo di 15 anni». «È stata calcolata», chiarisce la magistratura contabile, «che la spesa per le pensioni sarebbe stata superiore di ben due punti percentuali di Pil rispetto a quella effettivamente realizzatasi, cioè oltre 30 miliardi di euro l' anno, e per un periodo di almeno quindici anni». In soldoni 450 miliardi di risparmi. Risparmi per le casse pubbliche, pagati però dagli "azionisti lavoratori". La novità degli ultimi anni sembra questa: oltre ai contributi ora si paga per andare in pensione. E non sempre, pur avendone diritto, si riesce ad andarci, pur sottoponendosi alla "tosatura" di Stato (su delega all' Inps). Emblematico il caso di un aspirante pensionato (che presto sarebbe divenuto esodato), che nel marzo 2009 trova un accordo con il datore di lavoro. Lascerà l' azienda e chiede di poter versare i contributi volontari. Solo dopo 3 anni (nel dicembre 2012, quando ormai il caos esodati è scoppiato), l' Inps si degna di rispondere sui conteggi tanto sollecitati, spiegando che il signore avrebbe dovuto versare 148.000 euro. «I calcoli Inps», racconta l' avvocato Massimo Cammarota, «appaiono una follia, li contestammo subito. Dopo anni di tira e molla alla fine, rifacendo i conti, saltò fuori che il mio assistito doveva pagare "solo" 80.096,228 euro (e non 148mila). A questo punto l' Inps - con ben 6 lettere del direttore Inps di via dell' Ambaradam di Roma - riconosce il diritto a percepire la pensione dal 1 gennaio 2014. Però chiede all' esodato di saldare i contributi mancanti per il diritto alla pensione (80mila euro). Impegnandosi a collocare a riposo il lavoratore a far data dal gennaio 2014 (con il pagamento degli arretrati quindi).

Il 1 dicembre 2015 l' aspirante pensionato paga gli 80mila e, sereno dell' impegno assunto dall' Inps di poter andare in pensione nel gennaio 2014, attende gli arretrati. Illuso ottimista: l' Inps cambia le carte in tavola e pone in pensione il lavoratore dal gennaio 2016 senza arretrati. Ora, questa vicenda assurda, è in mano al Tribunale del Lavoro di Roma. «I giudici», chiosa Cammarota, «dovranno decidere sui risarcimenti. E alla fine chiederemo, oltre ai danni, anche la trasmissione degli atti alla Corte dei Conti al fine di valutare la ricorrenza del reato di grave danno erariale». Sorge il sospetto che non sia il caso di stringere accordi con lo Stato per agguantare il pensionamento anticipato. Proprio quello che intende perorare il governo con la ventilata riforma in gestazione.

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