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giovedì 4 settembre 2014

Sugli statali cala la scure della Madia: "Non ci sono soldi, stipendi bloccati"

Marianna Madia: "Statali, gli stipendi restano bloccati. Non ci sono risorse"




Il prezzo degli 80 euro lo pagano - anche - gli statali. Dopo le voci e le smentite degli ultimi giorni, ecco la conferma: "In questo momento di crisi le risorse per sbloccare i contratti a tutti non ci sono", spiega Marianna Madia, ministro della Pa, parlando dei rinnovi contrattuali per i dipendenti pubblici. Insomma, non ci sono soldi, e così continuerà il blocco agli stipendi degli statali. La Madia aggiunge: "Ora, prima di tutto, guardiamo a chi ha bisogno. Quindi confermiamo gli 80 euro, che vanno anche ai lavoratori pubblici" (ammesso che il reddito Irpef sia inferiore alla soglia minima per ottenere il bonus).

La Madia continua sottolineando come "i contratti hanno iniziato ad essere bloccati all'inizio della crisi economica". Una crisi economica che, alla luce dei "dati sull'economia" prosegue, e che il governo - assicura Marianna - "è impegnato a superare". E dunque la solita tiritera sui sacrifici per tutti: "Lo sforzo deve coinvolgere tutti, sia il governo che le parti sociali". Parlando a margine dei lavori in commissione Affari Costituzionali del Senato, dove è iniziata la discussione sul ddl Pa, Madia ha spiegato che la decisione sui contratti per il pubblico impiego verrà presa in sede di legge di stabilità, ma presumibilmente la proroga del blocco cominciato nel 2010, dovrebbe essere di un anno".

La multa si paga pure col giallo: i semafori truffano gli italiani e per i giudici è giusto così

Cassazione, semaforo giallo lampo: ma la multa si paga lo stesso




Il giudice di pace gli aveva dato ragione. La luce gialla del semaforo era durata meno di quattro secondi. E per questo, lui, la multa per essere passato col rosso, non la doveva pagare. La Corte di cassazione, però, gli ha dato torto, riconoscendo al Comune di Montevecchia in provincia di Lecco il diritto a riscuotere la sanzione. E invitando il Tribunale di Lecco ad adeguarsi al principio affermato.

Tempi ridotti - Il ricorso dell'automobilista si basava sul fatto che, fotogrammi alla mano, la luce gialla di quel semaforo di Montevecchia era durata meno di quattro secondi. E che dunque lui aveva avuto un tempo troppo ridotto per frenare. La durata di quattro secondi della luce gialla dei semafori dovrebbe essere adottata sulle strade urbane in base a una nota del ministero dei Trasporti (la numero 67906).

La pronuncia - La sentenza 18740 della Cassazione richiamata da Il Sole 24 Ore dice invece che l'automobilista dovrebbe adeguare la sua velocità allo stato dei luoghi senza contare troppo sulla durata dell'esposizione della luce gialla perché questa "non costituisce un dato inderogabile". E cita il Codice della strada per il quale "il tempo minimo di durata di detta luce non può mai essere inferiore a tre secondi", ossia il tempo di arresto di cui ha bisogno un veicolo che proceda a una velocità non superiore ai 50 chilometri orari secondo uno studio del Consiglio nazionale delle ricerche.

mercoledì 3 settembre 2014

Tassisti italiani come scafisti: arrestati Con l'auto portano immigrati in Germania

Immigrazione, arrestati i tassisti italiani che portavano i clandestini in Germania




Decine d'arresti. Nel mirino, i tassisti, che utilizzano le loro auto per accompagnare "oltre confine" centinaia di clandestini orientali. L'accusa è quella di favoreggiamento d'immigrazione clandestina. In manette anche diversi conducenti d'auto italiani, che noleggiavano le vetture proprio per "accompagnare" i migranti. Gli arresti sono stati effettuati principalmente al Nord, ma in un caso anche a Roma

Il caso - Le prime manette sono scattate lo scorso anno, ma il caso è emerso in queste settimane con il fermo del noleggiatore Alessio Tavecchio, 45 anni, di Pianezze (Vicenza) fermato dalla polizia tedesca mentre trasportava 10 profughi siriani. Manette anche per un altro vicentino, Giancarlo Flaminio di 72 anni di Grisignano di Zocco (Vicenza), e per i due padovani Marco Santi (51) e Fabio Forin (30) bloccati a Rosenheim mentre stavano viaggiando con 25 siriani.

La difesa - Ad abbozzare una difesa della categoria è Pierpaolo Campagnolo, presidente dalla Cooperativa Tassisti Vicentini, che spiega: "Non è obbligatorio sapere chi portiamo. Molti dei profughi che si sono allontanati dalla città li abbiamo portati noi. Quando il cliente è presentabile e paga, nessuna legge ci impone di chiedergli l’identità. Lo stesso vale per il noleggio con conducente". La notizia è stata confermata dal consolato italiano di Monaco di Baviera.

L'accusa - Secondo quanto riportato da Il Gazzettino, questi arresti sarebbero soltanto una piccola parte del problema, poiché molteplici casi analoghi sono stati segnalati nelle ultime settimane lungo il confine meridionale della Germania (anche il consolato italiano conferma l'entità del fenomeno). La vicenda, inoltre, attualizza le accuse piovute a fine agosto dal ministro degli Interni bavarese contro l'Italia, mister Joachim Hermann, che accusava il Belpaese di "non rispettare le regole sui rifugiati". Secondo Hermann, "l'Italia in molti casi intenzionalmente non prende i dati personali o le impronte digitali, il che significa che i rifugiati possono chiedere asilo in un altro Paese, senza tornare in Italia".

Nome, amicizie, stipendi e precari A Farinetti l'Oscar dell'incoerenza

A Farinetti l'Oscar dell'incoerenza

di Matteo Pandini 


"L’imprenditore che non stabilizza i precari è un bastardo" tuonava pochi mesi fa Natale Oscar Farinetti - chiamato semplicemente Oscar - patron di Eataly e uomo d’affari riferimento della sinistra renziana. Se il suo pupillo toscano deve vedersela con «gufi» e «rosiconi», il buon Farinetti è alle prese con i giornalisti «cattivi» e soprattutto con i dipendenti che non si rassegnano al licenziamento. E che si lamentano per tutto, a partire dalla busta paga leggera. Succede anche a Firenze: i Cobas stanno manifestando fuori da Eataly (aperta da meno di un anno) perché sono evaporati metà dei lavoratori. Erano circa 120, ora sono una sessantina. Cacciati, e «con sole 24 ore di preavviso» stando al comunicato sindacale.

Pensare che nel cuore della Toscana Farinetti aveva cominciato in grande, affidando i lavori a una ditta di Greve in Chianti il cui legale rappresentante è l’imprenditore quarantenne Stefano Carrai, lo stesso che riceveva incarichi dall’allora sindaco Renzi e gli pagava l’affitto di un appartamento in città. A Firenze una ditta del posto, mentre per Eataly Milano (stando alla denuncia della Cisl) il patron ha chiamato un’impresa rumena con capitale sociale da 110 euro e 25 lavoratori edili «di cui 23 operai non specializzati in costruzioni». Situazione ben diversa a quella di Bologna, dove il bando per la costruzione di Fico Eataly World, la nuova cittadella del cibo italiano, è finito alla cordata guidata dal Consorzio cooperative costruzioni (Ccc), braccio destro di Legacoop e che si sta occupando anche del contestato (e indagato) Mose di Venezia. Appalto da 39 milioni.

Farinetti guida un’impresa dove i dipendenti vengono perquisiti alla fine del turno e guadagnano più o meno 800 euro al mese per 40 ore a settimana. Però possono avere mezzo litro d’acqua per turno, da ritirare strisciando il badge alla cassa. Poi ci sono i part time assunti a tempo determinato, magari attraverso le società interinali come successo in Puglia. I sindacati protestano? «Sono medievali!» ringhia il patron. E all’inaugurazione di Eataly Bari aggiunse: «Grazie a noi, dei giovani possono mettere su famiglia». Con 800 euro. Al mese. Una miseria? «Far apparire Eataly come un’azienda che sottopaga i lavoratori è una vigliaccata», perché «un giovane al primo impiego che incassa 1.000 euro costa più di 2.500» si lamentò col Fatto Quotidiano.

Nato il 24 settembre del 1954 ad Alba, tre figli, dal 1980 al 1982 guidò il Psi craxiano in paese. La sua famiglia è sempre stata di sinistra. Il 25 aprile di qualche anno fa decise di chiudere i suoi ristoranti con lo slogan «resistiamo chiusi». Vende un Barolo battezzato Resistenza. E nell’area libri di Eataly è esposto un volume dedicato al padre, Paolo Farinetti, partigiano della XXI Brigata Matteotti. Il 18 giugno 1946 Farinetti senior finì sulla Stampa di Torino. Indicato come membro di una banda di rapinatori che prese di mira un mezzo che trasportava le buste paga dei lavoratori Fiat. Bottino: più o meno due milioni e mezzo di lire. Farinetti senior fu condannato, ma chi ricorda la faccenda fa imbufalire il figlio: «Mio padre è stato un galantuomo e dopo quella condanna è stato assolto per non aver commesso il fatto e riabilitato». Una versione che non ha convinto tutti i giornali.

Di sicuro Farinetti ha la sinistra nel Dna. Lo ribadì una sera del 2004, mentre assaggiava acciughe al ristorante Cà del Re a Verduno, Cuneo, davanti all’allora sindaco di Torino Sergio Chiamparino: «Sono di sinistra e non tiepidamente» ripetè. Fu così che la sua Eataly esordì all’ombra della Mole (primo passo di un’ascesa inarrestabile che l’ha portato anche in America e Giappone), strappando in concessione gratuita i capannoni della Carpano, storica fabbrica di vermouth, che Farinetti avrebbe voluto per 99 anni. Chiamparino gli rispose in dialetto «esageruma nen», non esageriamo, e gli concesse «soli» 60 anni. Fu l’inizio del successo mondiale per Farinetti, che negli anni 70 aveva messo piede nel supermercato di famiglia Unieuro, che poi si fonderà con Trony. A metà degli anni Duemila, il salto nella ristorazione. Prodotti tipici. Eccellenze italiane. E l’adesione allo Slow Food, l’associazione che si contrappone alla diffusione dei fast food valorizzando la buona cucina. Anche per questo sono piovute smentite all’ipotesi che Eataly possa accordarsi con i diavoli di Pizza Hut, catena americana, che stando ad alcune linguacce potrebbe aprire un locale insieme a Farinetti in piazza Duomo. 

Di sicuro, a Milano Oscar (come si fa chiamare dai dipendenti) si siederà alla tavola di Expo: Eataly avrà un ruolo da protagonista con due aree di servizio. Offrirà piatti tipici italiani, e pazienza se i soliti maliziosi raccontano che i fornitori dei suoi ristoranti vengono pagati dopo sei mesi perché devono ottenere la certificazione.

In un’intervista dello scorso gennaio a Libero, l’imprenditore «di sinistra e non tiepidamente» ha ammesso di aver creato delle fiduciarie che servivano per aggirare le leggi americane ma «ora il problema è risolto e le toglieremo». E poi sì, nei primi anni Duemila «ho fatto il condono perché era un’operazione normale. Lo facevano tutti». Pragmatico. Come quando insultò i leghisti «scimmie senza coscienza» e giurò che a Milano, avesse vinto Roberto Maroni le regionali, non avrebbe aperto il suo ristorante in piazza XXV Aprile. Vinse Maroni. Lui ha aperto lo stesso. E si è scusato: «Non vedo l’ora di diventare suo amico e simpatizzante». Farinetti non simpatizza invece per Brunetta, il quale deve accettare gli insulti sulla statura perché «aizza e fa parte del partito dei cattivi».

Farinetti ha un’ossessione per i cattivi, come bolla anche i giornalisti che si occupano di lui anche se «dietro ai miei atti c’è buona fede». Ha accusato Libero di «cercare le cose brutte nei suoi locali» mentre «ci sono mille altri problemi in Italia». Un’inchiesta del Fatto gli è sembrata «un gesto veramente cattivo». E chissà cosa ha pensato del Mattino, quando ha scritto che Renzi aveva incaricato proprio Farinetti di valutare l’ammissibilità di alcuni progetti agroalimentari del «made in Italy». Lui, Oscar, si sbatte per il bene del Paese e sui giornali monta la polemica perché un’azienda campana (leader delle farine per pizza) era stata esclusa da un evento promozionale negli Stati Uniti. Sfortuna ha voluto che la ditta in questione fosse concorrente dello stesso Farinetti, che prima parlò di semplice «refuso» e poi di «una cagata pazzesca». Più volte indicato come papabile ministro o assessore in Piemonte, Farinetti ha sempre negato. Meglio fare l’imprenditore «di sinistra e non tiepidamente», che accetta tutti gli inviti ai dibattiti, che adora Renzi e che non vede l’ora «di fare amicizia» con i cattivi dell’altra parte. Pagando i dipendenti meno di mille euro al mese.

La sconvolgente rivelazione di papà Kyenge: "La mia Cécile e Calderoli sono fratelli"

Papà Kyenge fa la contro-macumba a Calderoli: "Lui e Cecile ora sono fratelli"




Probabilmente una condanna per istigazione all'odio razziale non gliela toglierà nessuno. Ma, almeno, Roberto Calderoli potrà guardare con più fiducia a un roseo futuro. Papà Kyenge, che in Katanga è capovillaggio, ha infatti eseguito la contro-macumba che l'esponente leghista aveva sollecitato nei giorni scorsi. Per l'esponente leghista ed ex ministro, scherzi a parte, quella che si va concludendo è stata una estate a dir poco difficile. "Non sono mai stato superstizioso ma dopo la macumba che mi ha fatto il papà della Kyenge (dopo che Calderoli aveva dato alla figlia dell'orango") mi è capitato di tutto e di più" aveva detto, ricordando i guai degli ultimi mesi: "Sei volte in sala operatoria, due in rianimazione, una in terapia intensiva, è morta mia mamma e nell'ultimo incidente mi sono rotto due vertebre e due dita". Pochi giorni fa l'ultimo episodio inquietante: il rinvenimento di un serpente di due metri trovato in cucina, poi prontamente ucciso. 

Da qui la richiesta a papà Kyenge e la contro- macumba che dovrebbe mettere fine alla storia al confine tra politica e magia nera che ha caratterizzato questa estate. Come documentato dal settimanale "Oggi", Clement Kikoko Kyenge ha effettuato la cerimonia auspicata dall'esponente leghista per invocare quegli stessi spiriti che lo minacciano affinchè lo proteggano. Una vicenda tra la farsa e il paranormale che aveva provocato l'irritazione della stessa Kyenge. ''Ora Calderoli e Cecile sono fratelli spirituali'' ha detto papà Kyenge. "Se Calderoli vuole venire qui accoglieremo anche lui a braccia aperte, come un fratello. L'importante è parlarsi. Attraverso il dialogo i problemi si svuotano".

martedì 2 settembre 2014

Renzi ora chiede altri 3 mesi di tempo ma settembre inizia col record: 300 tasse

I mille giorni di Renzi, invece, partono con 300 tasse


di Antonio Spampinato 





Matteo Renzi si è preso 1.000 giorni di tempo per portare a termine la sua agenda di riforme: si va dal lavoro, allo snellimento della pubblica amministrazione, alla giustizia, al fisco, al ridisegno delle istituzioni. Un’indiretta ammissione sull’impossibilità di fare qualcosa di conclusivo nei primi 122 giorni di governo, bollando, di fatto, le precedenti promesse come irrealizzabili, quantomeno nei tempi programmati al momento del suo insediamento.

«L’Italia cambia. Con calma e il passo giusto arriviamo dappertutto», ha detto. Mettiamoci comodi, dunque, che fretta c’è. A proposito di fisco - e a proposito di riforme - ci permettiamo di segnalare che tra i numeri elencati nel corso della conferenza stampa il premier ne ha dimenticato uno, particolarmente caro a tutti: quello relativo alle scadenze fiscali. E, a questo proposito, settembre è uno di quei mesi da bollino rosso. Tra Irpef, cedolare secca e addizionali varie, il portafoglio si prosciuga, ma soprattutto impazzisce, dovendo stare dietro a un numero spropositato di adempimenti.

Il fisco amico, quello aperto al dialogo con i contribuenti, solo per il mese di settembre ha infatti fissato 371 appuntamenti con le famiglie e le imprese italiane. Di questi, 307 riguardano versamenti veri e propri, 17 sono dichiarazioni, 19 comunicazioni, 3 adempimenti contabili, 18 ravvedimenti e 7 tra richieste, domande e istanze. Non tutte da onorare da tutti, ovviamente.

Quello che però vorremmo mettere in risalto sono le catene che legano i contribuenti al fisco, l’esagerato numero di adempimenti che gli italiani sono costretti a segnarsi in agenda per non finire nel libro nero degli evasori. Persino i commercialisti faticano ad aggiornare i loro database, visti i continui ripensamenti e, purtroppo, aggiunte, che i burocrati sfornano in continuazione, quasi non facessero parte anche loro del tartassato mondo dei contribuenti italiani.

Ieri è stato il giorno della prima scadenza del versamento di Irpef, addizionali e cedolare secca per i contribuenti non titolari di partita Iva che hanno rateizzato il primo acconto 2014. Dei 51 versamenti previsti, 7 riguardavano l’Irpef, 8 le addizionali, 4 la cedolare secca e poi l’Iva (1), imposte di registro (3) e imposte sostitutive (4). Sotto la voce “altro”, ci sono scadenze quali il versamento dell’imposta dovuta sui premi ed accessori incassati nel mese di luglio 2014 nonché gli eventuali conguagli dell’imposta dovuta sui premi ed accessori incassati nel mese di giugno 2014. Martedì 16 sono previste ben 206 scadenze, di cui 205 relative a versamenti: sempre per Irpef, addizionali e cedolare secca, è fissata la scadenza per i contribuenti titolari di partita Iva che hanno rateizzato il primo acconto 2014. Inoltre, per i pensionati, è previsto il versamento della quota del canone Rai.

E si arriva a venerdì 19 con l’invio del modello 770 relativo all’anno 2013. Ma gli adempimenti del mese di settembre si chiuderanno martedì 30 con l’invio del modello Unico 2014 e del modello Irap 2014. Oltre a 51 diversi tipi di versamenti, anche qui suddivisi per tipologia di contribuente. Ma non è finita qui: a settembre si tornerà a parlare anche di Tasi. Mercoledì 10, infatti, i comuni devono approvare e inviare alle Finanze le delibere sulla Tassa sui servizi indivisibili, la nuova imposta comunale istituita dalla legge di stabilità 2014. E martedì 30 i Comuni devono approvare il bilancio di previsione (comprese le aliquote Imu e le tariffe Tari, la tassa sui rifiuti).

Sul sito dell’Agenzia delle entrate, proprio per venire incontro alla necessaria esigenza di trasparenza, il fisco, sempre quello amico, invece di tagliare con l’accetta il numero di scadenze, ha preferito pubblicare un comodo calendario in cui cittadini e imprenditori possono cliccare su decine, centinaia di link per capire in quale modo possono contribuire al risanamento dei conti pubblici e al rilancio del Paese. La suddivisione è fatta per adempimento e per tipologia di contribuente. Il tutto consultabile standosene seduti davanti al computer di casa o dell’ufficio. Comodo no?


Antonio Ingroia, rosso in tutti i sensi: la sua società sommersa dai debiti

Antonio Ingroia, la società che amministra in Sicilia sommersa dai debiti




Non è passato nemmeno un anno dall'insediamento dell'ex pm Antonio Ingroia sulla poltrona di amministratore di Sicilia e-service, la società informatica della Regione guidata da Rosario Crocetta. Ma oggi l'azienda rischia di chiudere. Troppi debiti. L’ex socio privato Sicilia e-Servizi Venture, controllato dalla Engineering Spa, richiede ben 88 milioni di euro per crediti non pagati.

"Qui salta tutto" - All'inizio di agosto il Tribunale di Palermo aveva rigettato una richiesta di sequestro delle somme in questione - che Ingroia aveva definito "temeraria e infondata" - presentata dalla stessa Sicilia e-Servizi Venture. Tuttavia l'ex pm ammette anche che essere costretti a pagare una somma così ingente "potrebbe far saltare tutto, col fine ultimo di aprire di nuovo il mercato agli operatori privati che finora hanno scorrazzato, proprio adesso che la Regione ha finalmente riconosciuto il valore strategico della società d’informatica pubblica".

L'altro guaio - Ma non finisce qui. Dopo circa un anno e mezzo dalla disastrosa esperienza alle elezioni politiche con Rivoluzione Civile e dal trasferimento ad Aosta che lo ha spinto ad abbandonare la magistratura, Antonio Ingroia ha un altro nodo da sciogliere: si tratta del credito di 75 milioni di euro stabilito in un accordo firmato dall'allora governatore regionale Raffaele Lombardo per Regione Sicilia con il socio privato. E come scrive L'Espresso, la priorità di Ingroia è proprio quella di "andare a verificare quell'accordo, controllando se ogni cifra pretesa è regolare".